Il Riformista, 14 febbraio 2010

L’organizzazione dove si registra la più alta partecipazione femminile è la Cgil. Oggi le donne sono circa il 50% degli iscritti, il 46 nei lavoratori attivi. Contano quasi la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi eletti, il 50% in segreteria, il 41 nel direttivo nazionale. Sono meno numerose negli incarichi di prima responsabilità. Guidano una decina tra camere del lavoro di città che contano e segreterie regionali importanti, e 3 segreterie nazionali di categoria. Dal congresso che si terrà tra tre mesi potrebbe uscire l’indicazione per una donna segretario. E alle donne della Cgil - e anche a qualche uomo - abbiamo chiesto che cos’è il potere femminile, se e come è diverso da quello maschile. La storia della crescita delle donne nel sindacato cominciò negli anni Settanta, con l’ingresso di donne femministe. All’epoca esistevano gli uffici lavoratrici guidati da una donna, una specie di ufficio dedicato che assisteva la segreteria confederale (maschile). Le emancipazioniste che venivano culturalmente dalle battaglie dell’inizio del secolo credevano che l’ufficio lavoratrici bastasse, le liberazioniste dicevano che doveva essere un ufficio trasversale, con le sindacaliste in funzione di rappresentanza generale, non solo delle donne. Le quote partirono dalla funzione pubblica. Ricorda Valeria Fedeli, oggi segretaria generale dei tessili, e all’epoca unica donna nella segreteria nazionale della funzione pubblica: «Nel congresso di categoria del 1986 ponemmo la questione delle quote. Noi donne ci alleammo con una componente riformista maschile e vincemmo una battaglia molto dura che divise i congressi territoriali ovunque. Le quote diventarono un tema congressuale al congresso della Cgil di quello stesso anno». Nel 1986, segretario generale Antonio Pizzinato, si stabilì che il 20% dei posti nei comitati direttivi e nelle segreterie di tutte le categorie dovesse spettare alle donne. Successivamente la percentuale salì al 30. Non tutte le donne furono favorevoli alle quote. Come ricorda Betti Leone, una delle protagoniste di quella fase storica, «noi accettammo le quote, dico “accettammo” perché una parte di noi le considerava una diminutio», esattamente come nella discussione di qualche anno fa sulle quote rosa in politica. Nel 1990 con Bruno Trentin segretario generale entrarono per la prima volta tre donne in segreteria. Nel 1991 fu introdotta una norma statutaria antidiscriminatoria. Dice che nessuno dei due sessi può essere rappresentato al di sotto del 40%. Se in segreteria il segretario propone una squadra con meno del 40% per le donne, deve motivarlo. All’inizio la maggior parte degli uomini subì le quote. C’era una minoranza pro-donne, ma qualitativamente forte perchè c’erano i segretari. Nel 2001 Sergio Cofferati decise di assegnare il 50% dei posti in segreteria alle donne. Nel 2002 c’erano sei donne Carla Cantone, Titti Di Salvo, Nicoletta Rocchi, Marigia Maolucci, Morena Piccinini e Paola Agnello. Alcune di loro sono le protagoniste del congresso che si terrà a maggio.

Trent’anni dopo

Sui risultati prodotti dalla partecipazione femminile alla politica sindacale c’è molta discussione interna. In generale gli uomini osservano che le aspettative di tanti anni fa erano più alte e che il risultato è deludente, che le donne non hanno prodotto una reale modifica nelle politiche per donne e uomini. Dice un uomo a lungo ai vertici dell’organizzazione, che si è sempre considerato dalla parte delle donne: «È stato risolto il problema della rappresentanza, ma non delle politiche per le donne». Lo stesso Epifani ritiene che ci sia ancora da lavorare sulla cosiddetta declinazione al femminile dell’attività sindacale e che probabilmente una parte della responsabilità sia delle donne: «È come se alcune - spiega - una volta diventate dirigenti un po’ dimenticassero l’identità di genere». Osserva Giorgio Airaudo, segretario della Fiom a Torino: «I gruppi dirigenti femminili che avanzano incrociano una fase di difficoltà del sindacato. Voglio dire: a che cosa è servita questa grande esperienza di crescita femminile per una giovane precaria?». Le donne sono divise sull’argomento. Le più giovani sono più concentrate sulla natura del nuovo tetto di cristallo: fino all’università le relazioni uomo-donna sono perfettamente alla pari, con un leggero vantaggio per le donne mediamente più portate per l’applicazione allo studio, poi arriva l’ingresso nel mondo del lavoro. Dice Serena Sorrentino, trentun anni, responsabile delle pari opportunità della Cgil: «La questione femminile oggi è la mancata piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro». Rocchi e Camusso sono su questa linea: «Il lavoro diventa una rottura rispetto alla prima esperienza, quella della scuola». Camusso aggiunge: «La questione della maternità è ancora il cuore del problema sia per le donne, sia per le aziende. Certo che abbiamo ottenuto grandi risultati in questi trent’anni, ma su questo punto siamo in ritardo. La verità è che per parificare le condizioni bisognerebbe avere il coraggio di proporre la paternità obbligatoria». Piccinini è più ottimista e radicale. Dice che «non c’è tema in cui non si incroci il tema della differenza di genere e per questo non è vero che le politiche sindacali non siano declinate al femminile. Se nel nostro bilancio sociale andassimo a cercare il capitoletto “donna” troveremo pochi risultati, ma in ogni accordo che sottoscriviamo c’è un continuo recepimento di temi posti dalle donne, dalla valorizzazione del reddito individuale rispetto a quello famigliare fino agli orari. Certo adesso c’è il rischio che i tempi attuali possano sospingere indietro le donne, ma è un altro tema». Sorprende, ma non c’è molto dibattito su aborto, fecondazione assistita, eutanasia, tutto il dibattito sulla vita. Non che le donne non rispondano alle domande su questi argomenti, ma lo fanno quasi come svogliatamente, rifacendosi a un automatismo, a una forma di certezza acquisita, a un progressismo genericamente rivendicato (e welfaristico in un certo senso) ma senza passione. Tra chi ritiene che ci sia stato un ripiegamento delle politiche femminili, qualcuno dice che «le donne si sono fermate, perché hanno smesso di fare delle battaglie comuni per avere più spazio e più leadership». Una specie di paradosso del potere femminile, dunque. Lo vedremo più avanti.

Carla Cantone

È una delle donne chiave dell’organizzazione, perché è il capo del sindacato pensionati, e potrebbe avere un ruolo se la battaglia congressuale si ingarbugliasse. Sessantadue anni, nata a Villanova d'Ardenghi, in provincia di Pavia, tra Groppello e Voghera, più verso Voghera. Pochissimo Arbasino, ma molta nebbia, che rimpiange. Madre operaia alla Necchi, morta che lei era bambina, padre bracciante. Si diploma ed entra nel Policlinico a Pavia. Insegna come volontaria nei cosiddetti “corsi delle 150 ore”, per consentire agli operai il conseguimento del diploma di scuola superiore. Nel 1971 entra in Cgil. Fa il suo cursus e nel 1992 viene eletta segretaria nazionale degli edili della Cgil, nonostante l’opposizione di Trentin. Fu Cofferati a convincerlo. Sempre Cofferati nel 2000 la chiamò in segreteria. Nel 2006 diventa capo dell’organizzazione, poi esce dalla segreteria. Da un anno guida i pensionati, lo Spi, il grande stabilizzatore degli equilibri congressuali, oggi messo sotto accusa dalla minoranza per il metodo di assegnazione dei delegati da riattribuire alle gategorie. Vive da molti anni con un sindacalista della Cgil, non ha figli, abita a Roma, ma torna spesso a Pavia. Potente, ma con una storia estranea a quella della scuola classica della leadership sindacale, non ha mai militato nel movimento femminile, non ha una visione di genere e sembra priva di snobismi. Le piacciono gli indiani d’America, il suo libro preferito è “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee”, quello da cui è tratto “Piccolo grande uomo”. Film favoriti anch’essi sentimentali: “Julia” e “Pretty woman”. Curioso questo sentimentalismo, perché anche a causa della militanza negli edili viene considerata spiccia. Si racconta che una volta tirò un pugno a Raffaele Bonanni, segretario della Cisl e suo ex omologo alla guida degli edili cislini. Ma la cosa è controversa. Bonanni nega (da destra: «Avete visto le mie mani?»). Lei minimizza. Una volta in un intervento pubblico, così disse alla platea: «Quando si riferiscono a me - la cosa ammetto che mi dà un po’ fastidio - dicono però che sarei la candidata più pericolosa per la Marcegaglia, e non perché ho fatto tante cose, ma perché ho dato un pugno a Bonanni. A me, essere più quotabile solo perché ho picchiato un uomo, non è che piaccia poi molto, e non credo che sia una nota di merito o simpatica. Anche perché non è vero: è stata solo una carezza un po’ ruvida. Insomma, non un cazzotto».

Cantone testimonia

Sui rapporti tra femmine e maschi, sempre nella stessa occasione, l’Assemblea nazionale donne del sindacato dei lavoratori delle comunicazioni, a Roma il 2 aprile 2008, Cantone descrisse i luoghi comuni tipici che i maschi utilizzano «anche nella nostra organizzazione, quando parlano delle donne». Ecco un estratto: «Gli uomini non dicono parole volgari, perché da noi sono più educati. Nella Cgil non si fanno mai sentire a dire certe brutte parole, magari le pensano, dicono al più che noi donne siamo delle “bonazze”. Per esempio da noi si ama dire che le donne sgomitano, mentre gli uomini fanno battaglia politica; che le donne vogliono il potere, mentre gli uomini rivendicano un giusto riconoscimento; che le donne litigano fra di loro, mentre gli uomini si confrontano; che le donne sono divise e non sono solidali fra loro, gli uomini invece hanno delle posizioni articolate. Ma brutte parole non ne dicono, per non farsi sentire, le pensano soltanto. E potrei continuare. Che noi donne siamo brave, anzi “bravine”, mentre gli uomini sono preparati e sono capaci, che noi donne siamo vendicative, loro invece si difendono, che noi rompiamo le scatole e loro sono insistenti e coerenti, che noi vogliamo la parità e invece loro (e qui la chiudo) sono per l’emancipazione delle mogli dei loro amici». Il maschilismo Nonostante venticinque anni di quote, e l’accettazione piena della carnalità politica femminile, la questione è che nel profondo - lo dicono uomini e donne - la Cgil è un’organizzazione ancora maschilista. Dice Susanna Camusso: «Il metro è ancora quello per cui una donna brava, c’ha le palle, perché in fondo l’unico parametro è l’eguaglianza con il maschio». Spiega Morena Piccinnini: «In tutti questi anni, la reazione degli uomini è stata quella di metterci continuamente alla prova. Un tempo c’era un libricino, una pubblicazione interna da noi promossa, intitolato “È brava ma…”. Significava che c’era sempre una riserva. Questo è rimasto, nel senso che rispetto alle donne c’è come una forma di eccesso di misurazione». Conferma Carla Cantone: «Alle donne è stata chiesta sempre più competenza, più capacità nel merito, e in cambio è stata offerta meno indulgenza, più severità nei giudizi». Dice Betti Leone: «Certo, oggi nessuno comincerebbe un intervento dicendo cari compagni. “Care compagne e cari compagni” è la formula rituale. E così nessuno farebbe affermazioni sulla condizione di genere, sulla differenza come limite. Però resta - quasi come sottofondo di una psicologia collettiva - il paternalismo: tu sei capace, però io uomo ti proteggo. Da questo punto di vista non è un atteggiamento tra pari». Per questo Epifani dice che una delle condizioni necessarie perché in una organizzazione si possa arrivare al risultato di una guida femminile è che «l’organizzazione nel complesso sia pronta ad avere un capo donna».

Nicoletta Rocchi

È coetanea di Epifani, sessant’anni, e ha la sua stessa storia politica, socialista nella Cgil. Romana - e portatrice di una forma fisica di romanità - bancaria, ha cominciato alla Comit. Oggi è una dipendente di Intesa Sanpaolo in aspettativa, ma è buona amica soprattutto di Alessandro Profumo. Come segretario generale dei bancari della Cgil, la Fisac - sindacato quasi federato, autonomo e borghese - dal 1986 al 1999 ha partecipato attivamente al processo di ristrutturazione e consolidamento del sistema bancario italiano. Sa che cos’è un potere forte, ma sa anche quando arriva il momento della battaglia e dell’elasticità amoralistica delle relazioni politiche. Riformista, si è alleata con la maggioranza massimalista della Fiom di Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi e con il corpaccione centrista della funzione pubblica di Carlo Podda. Intelligenza politica, competenze sulla questione femminile, è stata in segreteria dei pensionati. È entrata in segreteria generale con Cofferati nel 2002. Oggi ha la delega alle politiche internazionali. Sposata con un professore universitario, ha un figlio. Come - in generale - la vedono gli altri nel sindacato: visione di politica sindacale strategica, brava nelle relazioni, ma meno portata alla costruzione del consenso, e alla gestione della complessità. Non è una che interviene volentieri in pubblico. Un po’ individualista.

Il doppio ruolo

Come spiega Federica Guidi, capo dei giovani di Confindustria, la vera differenza tra uomini e donne nel lavoro è che le donne sono in grado di passare con estrema naturalezza dal file “ufficio” a quello della gestione della vita. Ma ovviamente anche questa elasticità ha un punto di rottura. Dice una sindacalista con una responsabilità di guida di una realtà territoriale, che non vuole essere nominata, «se chiami una donna con figli a fare il sindacalista prima o poi si scontrerà con la gestione degli affetti. Il doppio ruolo è un problema». Le storie aiutano a capire. Molte di queste donne hanno solo un figlio, moltissime hanno ritardato la maternità per non sacrificare tempo politico o per non perdere terreno nel confronto con gli uomini. Qualcuna non ne ha voluti. Una racconta: «Non ho fatto figli perché sarebbe stato incompatibile con il ruolo di sindacalista. Ho scelto tra fare bene la madre e fare bene la sindacalista». Il mondo che frequenti ti condiziona, se lo consideri il centro della tua esistenza. Poi a un certo punto la questione materna si impone. C’è chi sceglie di fare un figlio comunque, c’è chi dopo averlo fatto racconta che in ogni caso non è stato possibile occuparsene come un’altra qualunque madre che lavora, perché il sindacato è totalizzante, che lo spazio per gli affetti è compresso e che devi avere fortuna perché l’educazione dei figli non sia disastrosa. A una di loro che crede di aver sacrificato una parte del tempo affettivo di suo figlio, chiediamo se negli anni Settanta il valore totalizzante dell’esperienza sindacale non avesse a che fare più semplicemente con la militanza comunista e lei risponde: «Può essere di sì». Nicoletta Rocchi dice che avrebbe voluto avere più di un figlio, è il suo rimpianto.

Morena Piccinini

Morena Piccinini è nata a Nonantola, in provincia di Modena, nel 1956 in una famiglia operaia. Laurea in G iurisprudenza a Modena,
cominciò con la Cgil come volontaria. A quarant’anni diventa segretaria della camera del lavoro di Modena, la quarta d’Italia, 125.000 iscritti, forti i braccianti e i metalmeccanici. Entra in segreteria confederale nel 2002, chiamata da Cofferati. Di origine comunista, non è entrata nel Pd, oggi viene considerata vicina a Sinistra e libertà: rivendica però la separazione netta tra idee e preferenze politiche e ruolo nel sindacato. Nel 2006 chiude l’accordo sul Welfare con il governo Prodi come numero due della delegazione cigiellina. Nel sistema dei valori sindacale, ancorché la responsabilità politica degli accordi o delle rotture sia ovviamente del segretario generale, la circostanza ha comunque un peso: rispetto per esempio a Cantone o a Camusso è la sola ad aver chiuso un grande accordo (Cantone partecipò alla trattativa mai decollata con Montezemolo, Camusso a quella con Marcegaglia che ha portato all’accordo separato). Fisicamente vi sembrerà il genere tradizionale di donna lavoratrice, che allude all’austerità, con responsabilità dirigenziali, un idealtipo sospeso tra il capo di una asl e una ministro della pubblica istruzione democristiana. È corazzata, ma diretta. Non ha, per esempio, alcuna forma di falsa coscienza sul congresso: ammette che lo scontro per il potere è legittimo, e lo fa con una leggera inflessione che sembra significare “ovvio che è così”, e che l’idea del contrario è solo una semplificazione moralistica. Parla con una sintassi molto strutturata.
Come accade sempre quando in una vita più o meno pubblica o in una persona incontrata al lavoro si apre uno spiraglio privato, è inatteso scoprire da chi la conosce bene che a Natale regala alle altre donne della segreteria («le compagne della segreteria») una tovaglia con il punto a giorno fatta da lei, che prepara l’aceto balsamico o che è una brava cuoca.
È sposata, ha un figlio. È più comunicativa di quello che sembra, ma non cerca complicità con chi l’ascolta finalizzate al consenso. Al fondo pensa che in questo momento la classe dirigente sindacale femminile sia migliore di quella maschile. Rocchi e Camusso ne riconoscono la competenza e la qualità personale.

La questione sessuale

Racconta Susanna Camusso che quando entrò nella Cgil, negli anni Settanta, c’era un quadro della fauna maschile estremamente vario. «C’erano uomini molto belli che si dedicavano scientificamente alla conquista come forma di complemento alla militanza, e c’era l’operaio monastico che aveva praticato un tipo estremo di moralismo,
convinto che il fedifrago Togliatti avrebbe meritato l’esilio. L’arrivo delle donne funzionarie e poi delle quote fece saltare lo schema classico della conquista sentimentale dei maschi dell’organizzazione tutto basato su una articolazione gerarchica dei rapporti tra uomini e donne. Costrinse gli uomini, così come del resto succedeva nella società, a cambiare atteggiamento».
L’inversione dei rapporti gerarchici poteva dare luogo a piccoli scampoli di commedia all’italiana. Carla Cantone era un dirigente degli edili. Le assemblee si tenevano nei prefabbricati dei cantieri. «Coprivano i manifesti delle donne nude con i giornali. “Guardate che io so benissimo che c’è lì sotto”, gli dicevo».
All’inizio l’avanzata delle donne veniva contrastata dagli uomini con tutti i mezzi classici, compresa la calunnia sessuale. Il retaggio di un atteggiamento antifemminile lo si avverte ancora un po’ negli uomini più anziani, ma in generale il fenomeno è scomparso, anche perché nei grandi numeri tutto si stempera. Come racconta Morena Piccinini: «Un tempo il fenomeno è esistito, ma quando le donne sono aumentate è scomparso, perché era impossibile utilizzarla con così tante donne in circolazione». Camusso dice: «La calunnia non è mai stata usata come strumento di distruzione, però nella mia vita mi sono stati attribuiti dei fidanzati molto di fantasia». Barbara Tibaldi, funzionaria della Fiom a Torino: «Se fosse stata vera la vita sessuale che è stata descritta di me, sarei sicuramente una donna felice. Ma ho subito la calunnia sessuale più in politica che nel sindacato. Il sindacato è più moralista e in un certo senso c’è un riflesso più comunista, l’avversario che vuole farti male in fondo preferisce dire che sei un nemico del popolo, piuttosto che una troia».
Sulla questione sessuale si affaccia quello che arriva da fuori, dalla realtà, dal caso D’Addario a Delbono. In generale le donne tendono a pensare che i fatti dell’ultimo anno abbiano riproposto uno schema di rapporti di potere antico, con la donna subalterna, un po’ vittima e un po’ approfittatrice. Ma c’è anche in alcune zone della dirigenza femminile un certo fastidio per il ricatto moralista. Cantone: «Il problema sessuale oggi è oggetto di continua attenzione da parte dei mass media. C’è un interesse morboso e moralistico nei confronti del caso Delbono, per esempio, in cui si nota minore interesse per l’eventuale peculato, che per il romanzetto sentimentale che diventa scabroso. Anche lì sarebbe stato diverso se non ci fosse stata di mezzo una donna. Come con Berlusconi, invece di contrastarlo sulle sue scelte politiche, si sceglie di attaccarlo sulle sue storie femminili».

A congresso

Nel 2008, Epifani disse che gli sarebbe piaciuto portare una donna alla segreteria dopo cent’anni di storia. Questo fa parte della sua cultura di socialista, ritiene chi lo conosce. Gli sarebbe piaciuto farlo in concomitanza con il quadriennio di Emma Marcegaglia: il confronto tra i produttori affidato a due donne. Confindustria è un soggetto ricorrente quando si affronta la questione femminile. Tra i giovani la rappresentanza femminile è ormai alla pari, hanno avuto tre donne presidenti negli ultimi quindici anni, e la Marcegaglia è diventata presidente degli industriali italiani senza le quote. Dunque l’esperienza confindustriale è una pietra di paragone.
Epifani non parla della questione di potere dentro la Cgil e tantomeno dei suoi orientamenti o preferenze congressuali. Però nell’organizzazione si dice che nel 2006 avrebbe visto di buon occhio Morena Piccinini. Successivamente gli è stato attribuita un cambio di orientamento, più nei confronti di Susanna Camusso, entrata in segreteria in un cruento avvicendamento nel 2008. Il cambiamento era collegato anche alla vicenda politica, al rapporto con il Pd veltroniano. Piccinini è un’ex comunista considerata vicina a Sinistra e libertà, Camusso è una ex socialista iscritta al Pd. Questa scelta attribuita al segretario suscitò un’opposizione interna anche tra le donne. E ha contribuito allo scontro congressuale. La mozione di minoranza firmata dai capi dei metalmeccanici della Fiom, della Funzione pubblica e dei Bancari e da un componente della segreteria, Nicoletta Rocchi, nasce da una considerazione sull’operato della Cgil di questi anni (vista come una organizzazione incapace di gestire sia le rotture sia gli accordi) ma anche da un confronto sull’assetto del futuro gruppo dirigente della Cgil. Rocchi, però, respinge l’idea che alla base della rottura ci sia stata una questione femminile, «non farebbe parte della mia storia e del mio carattere».
Ora il congresso a mozioni contrapposte potrebbe modificare la successione, ma dipenderà dall’esito. Se la mozione di minoranza non decollasse, non cambierebbe nulla, tutto sarebbe deciso dentro la maggioranza compresa la discussione donna sì-donna no. L’opposizione cercherà attraverso il risultato di condizionare la formazione del nuovo gruppo dirigente e mescolare le carte anche per la segreteria. Ma questo si vedrà.
L’aspetto interessante, oggi - indipendentemente da come andrà a finire - è che nello scontro tra i gruppi dirigenti, c’è spazio per una analisi sul comportamento dei generi, o almeno quest’analisi si svolge nelle riflessioni tra i dirigenti. Il fatto è che c’è una aspettativa sulle
donne, ma ci sono anche gli uomini, con le loro chances e ambizioni personali. Dice una donna, una dirigente di primo piano: «Certo che ci sono anche gli uomini e si è creata un’alleanza trasversale tra un pezzo dei maschi e un pezzo delle femmine che in fondo preferiscono essere poche e cooptate. Gli uomini sanno che più dividi le donne, meno posto c’è per loro. In fondo “meglio uomo che donna” mette d’accordo tutti gli uomini e tutte le donne che credono meglio un uomo se la donna che comanda non posso essere io». D’altra parte un pezzo degli uomini (e qualche donna) ritiene che eleggere una donna solo in quanto donna è una scelta debole in partenza che toglierà credibilità al vertice dell’organizzazione.
Per ora la questione femminile in relazione ai rapporti di potere tra maschi e femmine è argomento di ricche conversazioni a base di una forma di pettegolezzo psicologico, in cui soprattutto le donne analizzano l’atteggiamento delle leader nei confronti del potere femminile. Breve riassunto dell’opinione maggioritaria raccolta su Camusso, Cantone, Piccinini e Rocchi e a noi riferita da un dirigente uomo che preferisce non essere nominato. «Camusso: è una donna che potrebbe fare il ragionamento di alleanza tra donne (per escludere gli uomini), ma non lo fa; Cantone: non ha un percorso “con le donne” e non ha un’approccio di genere, dunque si tiene in riserva; Piccinini: alcuni tra noi pensano che potrebbe essere una donna la quale pur di non far vincere un’altra donna - in questo caso la Camusso - sosterrebbe un uomo chiunque sia; Rocchi: ha deciso di governare la minoranza congressuale, ma si è chiamata fuori dalla questione genere».

Susanna Camusso

La segretaria confederale Susanna Camusso è nata a Milano nel 1955. Cominciò a vent’anni alla Flm, la categoria unitaria dei metalmeccanici a Milano, nella formazione degli operai che avevano ottenuto le 150 ore aggiuntive di formazione. Conobbe Bruno Manghi, Maravese, Lorenzo Cantù. Il sindacalista cui deve la sua formazione è Angelo Airoldi. Viene da un’esperienza di femminismo. È stata in Fiom fino al 1997, componente della segreteria nazionale, dove aveva la responsabilità del settore auto, cioè la Fiat. Poi passò alla siderurgia. Solo una volta, nel 1978, gli operai di un’impresa che impiantava piattaforme subacquee, chiesero che al suo posto arrivasse un sindacalista maschio ed esperto.
Nel '97 fu Claudio Sabattini a estrometterla. Sabattini è stato l’ultimo grande leader carismatico della Fiom. Una persona che lo ha
conosciuto bene ricorda - con una formula molto istruttiva per chi abbia voglia di proiettarsi nella dimensione mitica della politica - che Sabattini fu avversario di Achille Occhetto per la guida della segreteria della Fgci nel 1961, il che significa che per un momento nella sua vita di ragazzo dovette accarezzare l’idea che un giorno sarebbe diventato il capo dei comunisti italiani. Si limitò ai metalmeccanici. Aveva la faccia di un indiano. Un’incidente d’auto gli lasciò una cicatrice sul volto, l’esplosione di una scatola di fiammiferi gli rattrappì le mani (gli fu tagliato un dito a seguito di un’infezione) e gli bruciò la faccia. Era alla manifestazione sindacale di piazza della Loggia quando scoppiò la bomba. Nei suoi anni alla guida della Fiom eliminò non solo Camusso, anche Cesare Damiano, Gianpiero Castano e Gaetano Sateriale. A Camusso ovviamente non era simpatico, ma lo rispettava. Gli sconfitti furono recuperati da Cofferati. Camusso fu eletta eegretario generale della Cgil Lombardia nel 2001. È arrivata in segreteria nazionale nel 2008 con un avvicendamento che fece scalpore.
Proviene da una famiglia borghese, suo padre fu un direttore editoriale di Mondadori. Questa provenienza - dicono quelli che la studiano - le ha procurato delle diffidenze, molto nutrite dagli avversari. Gli uomini ne parlano ancora come della ragazza bellissima che è stata. Persona intelligente, di una forma di intelligenza extrapolitica. È sportiva nell’abbigliamento, ha molte camicie, va in barca a vela d’estate, ma non ne possiede, l’affitta. È sposata e ha una figlia.
Che cosa dicono di lei gli osservatori neutri: determinata, lavora molto, ha un limite nella relazione costante (probabilmente a causa della timidezza), è poco collegiale. Vive la condizione difficile, anche mediaticamente della “candidata”, per di più con la delega alla contrattazione che è stata al centro della battaglia politica con il governo, la Confindustria e le altre organizzazioni sindacali.

Il potere delle ragazze

Non sono più buone degli uomini, né più tenere, né meno cruente o determinate nello scontro. Ma c’è una discussione sull’esercizio del potere femminile e differenza con lo stile degli uomini. Come comandano le une? In che sono diverse? Proviamo a capire. Innanzitutto l’uomo tende a dividere, a separare, a mettere gli uni contro gli altri, e a generare le condizioni per poi rappresentare egli stesso le condizioni della sintesi. La donna, invece, è di natura più inclusiva. Gli uomini esercitano il comando in modo didascalico, le
donne sono meno retoriche. L’uomo tiene ai simboli del potere, anche al micropotere di un ufficio: per esempio è sempre incline a farsi chiamare qualcuno al telefono. Le donne cape, invece, sé è necessario fanno anche le fotocopie.
«In generale - dice Betti Leone - i rapporti di potere hanno regole maschili, per i maschi conta più l’autorità dell’autorevolezza, contano più i patti delle competenze. Le donne hanno difficoltà a fare patti». Le donne pensano di essere più collegiali quando comandano. Camusso: «Quanto conta la solidarietà femminile? Noi donne del movimento abbiamo pensato spesso a una specie di sorellanza, in realtà abbiamo anche noi divisioni, invidie come gli uomini. Però noi ci interroghiamo sempre, anche sulle decisioni prese». Piccinini: «Apparentemente fa perdere tempo, ma ci vuole carattere e solidità per confrontarsi sulle decisioni e difendere la condivisione». Barbara Tibaldi: «C’è un’altra differenza con gli uomini, le donne sono più sportive rispetto al potere, non ne sono dipendenti, sono più disposte a perderlo».
In teoria, osserva qualcuno, il potere femminile in una struttura sindacale così come in quella aziendale dovrebbe essere più facile, perché concreto e sottoposto a costanti verifiche. Se vai sotto in assemblea devi cambiare l’accordo. Le donne sono più pragmatiche. In realtà tutto il processo delle decisioni, lo stile di comando, le sensibilità culturali, le rivendicate tenerezze del genere femminile si scontrano con le abitudini sedimentate di un mondo che è maschile, a volte per inerzia. Così, come il diavolo sta nei dettagli, il potere maschile anche. Spiega Titti Di Salvo che «una questione importante per capire le modalità del potere è l’orario di convocazione di una riunione. Ci sono orari che penalizzano le donne alle prese con il doppio ruolo, sembra una sciocchezza ma non lo è».
Per farsi un’idea più precisa di quello che si agita in questa discussione sul potere dei generi, bisogna tener conto di una questione che tende a restare sotterranea e che Betti Leone riassume così: «Ci sono delle cose che le donne fanno meglio degli uomini e viceversa. Ma le donne tendono sempre a spingere per la parità, anche quando è un obiettivo secondario. Il sindacato è un mondo molto maschile e le donne siccome devono fare un grande sforzo, a volte non distinguono la parità nei diritti con l’esercizio del lavoro differente».
Dal punto di vista culturale, la differenza più interessante che emerge è quella del rapporto con la sfera pubblica. Betti Leone: «Gli uomini pensano di poter rappresentare tutti, uomini e donne, le donne sono più coscienti della loro parzialità». Le donne della Cgil pensano di
avere ancora una forma di ritegno pubblico, di avere il problema dell’essere scelte, di non proporsi, di non candidarsi, di sottovalutarre se stesse. Dice una ragazza: «Di solito le donne hanno delle timidezze. Non tengono in giusto conto le loro qualità». Barbara Tibaldi racconta che a Torino hanno messo in piedi un’iniziativa interna: «Stiamo cercando di promuovere un coordinamento. Il nostro obiettivo è quello di far parlare le donne tra loro per imparare a manifestarsi. Molte sono donne che in fabbrica, in quanto delegate, sono ascoltate e sono interlocutrici delle imprese, ma sono incapaci di parlare in pubblico, anche dentro la loro organizzazione». Serena Sorrentino pensa però «che le donne di solito parlano in pubblico solo se serve, non come modalità di autopromozione. Se qualcuno intervenuto prima di me ha già espresso il mio stesso punto di vista, rinuncio a intervenire».
Più difficile rispondere alla domanda su come concretamente le donne comandino (nessuna ha degli aneddoti da proporre) e se esistano dei modelli di riferimento. Margaret Thatcher comandava da donna? No, dice la vulgata, eppure nella sua autobiografia descrive se stessa come una donna che decide, ma è anche una donna collegiale. Più difficile da analizzare - perché controverso da questo punto di vista - il caso Angela Merkel, in cui sono in gioco componenti psicologiche più sfumate.
Betti Leone ritiene di non aver mai visto in azione un modello di potere femminile. Nel sindacato chi l’ha vista all’opera dice però che lei lo è stata: era presente, tignosa, chiedeva conto, non gettava la palla in tribuna, cercava soluzioni condivise. «Non so - risponde - Direi che tutti si aspettavano da me il comando, e il fatto che io lo facessi in modo diverso veniva scambiata per debolezza».
C’è anche chi non crede alla differenza tra i generi: «Ho conosciuto donne ciniche più degli uomini», dice Serena Sorrentino. La a-ideologica Cantone ha un’idea più terza del problema. Riconosce che c’è una differenza di genere, ma sposta la palla più a destra: «Le donne sono meno prepotenti - dice - meno autoritarie, ma siamo più determinate nell'assumere le decisioni. In realtà credo che la vera differenza di stile sia nel carattere di ciascuno».
Forse è così, l'indole personale ha un peso decisivo, ma la discussione sulla struttura maschile delle regole di comando resta aperta, almeno finché il riequilibrio dei numeri non consentirà una prova statisticamente più significativa di un carattere femminile del potere.

di Marco Ferrante