Le prime tre pagine del libro
lette da Irene Grazioli
SINOSSI
A Pasqua del 1997 una motovedetta albanese affondò a seguito di una collisione con una nave della marina italiana, nave Sibilla. Tecnicamente fu rubricato come un incidente. In realtà fu il risultato di una manovra di harrasment da parte di una nave da guerra su un piccolo naviglio completamente indifeso. Morirono più di 80 persone, almeno 20 i bambini.
Il fatto destò un grande sconcerto e alcune conseguenze politiche. Perché il governo in carica era di centrosinistra e ciò causò un ribaltamento inaspettato delle posizioni in campo (qualcosa come i giusti che non sempre sono giusti) e la consapevolezza – non per tutti definitiva – che i blocchi navali propriamente detti hanno dei costi insostenibili in termini di vite umane perdute, di reputazione e di consenso.
Nella finzione del romanzo, la fine della Kater I Rades costituisce la svolta esistenziale nella vita del protagonista, Bernardo Bleve. Brillante imprenditore agroalimentare con radici nel vecchio mondo agrario pugliese, Bleve impiega nella sua azienda molti extracomunitari, alcuni albanesi. La tragedia della motovedetta gli apre definitivamente gli occhi sul nostro rapporto con gli Altri: noi abbiamo bisogno di loro (e loro di noi), ma una parte profonda di noi li rifiuta. Una grande storia d’amore viene usata come specchio di questo trauma dell’incomunicabilità. La paura degli altri è politica e umana. Un meccanismo difensivo – ugualmente politico, appunto, e antropologico – scatta, ci condiziona, prevale sul razionale, sul buono, e persino sull’ottimo economico. Questo è il movente profondo di questo racconto. Una tragedia pubblica determinerà un’altra tragedia più privata e altrettanto esiziale.
Il primo è la famiglia, luogo necessario della vita di ognuno. Le madri, i padri, le stimmate dell’identità, i complessi, i sensi di colpa, le paure e – a volte – il coraggio. Tutto quello che ci precede viene da lì: le condizioni economiche di partenza, l’educazione, il corredo cromosomico e sue conseguenze, belli, brutti, biondi, bassi, di pelle rosata, destinati al cancro. In questa famiglia – i Bleve – il senso di colpa è un fattore determinante. Instillato, richiesto, provocato e anche desiderato. Bernardo Bleve è un maestro di sensi di colpa. Suo figlio Gelasio la sua principale vittima, ma il padre non lo sa. Elemento decisivo per l’esito della tragedia. E soprattutto per la spiegazione che di essa arriverà a posteriori.
Il secondo elemento di sfondo è la Puglia, ambientazione che non si limita alla funzione di quinta. È una Puglia anomala, distillata, antiretorica colta in un momento di passaggio del glocal contemporaneo. Siamo alla fine degli anni ‘90, quando – cioè – la piccola rappresentazione identitaria di un mondo periferico si apre all’esterno e per essere accettato o solo commerciato sceglie una specie di falso sé: in questo caso una etnografia amplificata (la pizzica, il tarantismo), la magia di un levantinismo minore, i giardini perduti, le piazze assolate, il mare turistico, la pretesa gentilezza delle persone.
Ma è una costruzione astratta. La magia è un’illusione, il tarantismo è una forma di controllo sociale, ai contadini non piaceva il tempo fermo in cui andavano a piedi nudi, e le persone non sono gentili ma irredente, pronte a dire: questo è il limite da non oltrepassare. Ultra quos citraque… era scritto su un cartiglio nell’aula di un bellissimo liceo della giovinezza.
BIOGRAFIA
Nato in Puglia, andato via a 18 anni. Studi disordinati e mai ultimati in architettura e giurisprudenza, lunga militanza politica come dirigente di un antico movimento giovanile interrotta nel 1993-94 e deliberatamente mai più praticata, decennale gavetta giornalistica, poi l’inizio del giornalismo professionale al Tg5 di Enrico Mentana. Otto anni, al servizio economia.
Successivamente ho partecipato alla fondazione di Matrix, che fu un avvincente esperimento fusionista.
Dopo il telegiornale ho avuto una lunga parentesi nella carta stampata. Mi sono occupato prevalentemente di rapporti tra potere politico ed economico. Per quattro anni capo dell’economia al Foglio di Giuliano Ferrara – forse la più concentrata esperienza degli anni formativi – due anni vicedirettore del Riformista, e infine editorialista del Sole 24 Ore e del Messaggero.
Nel 2011 sono tornato in tv, prima con un piccolo programma di ritratti per Rai5, Icone, realizzato con Simona Ercolani, e poi a La7 dove ho lavorato per sette anni, ho fatto il vicedirettore e mi sono occupato tra l’altro della costruzione del palinsesto del day time.
Dopo quindici anni altrove, nel 2019 sono tornato a Mediaset. Faccio il vice-direttore di Videonews, mi occupo di programmi televisivi.
Sposato da 25 anni, tre figli che crescono.
Ho scritto cinque libri, ho partecipato a due edizioni del premio Strega, con i romanzi Mai alle quattro e mezzo e Gin tonic a occhi chiusi. Il terzo romanzo Ritorno in Puglia è appena uscito. Gli altri due sono libri di ritratti. Casa Agnelli è il racconto di una famiglia del capitalismo in un momento cruciale della sua storia. Marchionne è un profilo (uscito in tre versioni diverse tra il 2008 e il 2018) di un capitano d’industria al tempo della Grande Crisi.
Dirigo una antica rivista di cultura, Civiltà delle Macchine, fondata dal poeta, ingegnere, intellettuale eclettico Leonardo Sinsgalli.
Negli anni ho collaborato con diversi periodici – settimanali, mensili, riviste – Panorama, Vanity Fair, Corriere Economia, Io Donna, AD, Icon, Rivista Studio, Zero. Vorrei farlo di più e ogni tanto riesco a scrivere per Doppiozero di Marco Belpoliti.