Panorama, Novembre 2011
Stando a un accurato radioservizio della Bbc, la sua canzone preferita è You can’t always get what you want dei Rolling Stones. Il che sarebbe abbastanza spiazzante, pensando allo stile formale di quello che secondo il quindicinale Usa Forbes è il dodicesimo uomo più potente del mondo. Ma secondo la Bbc la canzone funziona, perché, rovesciando la negazione del titolo, Mario Draghi quello che ha voluto è riuscito sempre a prenderselo. Presidente della Banca centrale europea dal 1° novembre, ha esordito tagliando i tassi d’interesse dello 0,25 per cento. La decisione va presa a maggioranza, il neopresidente ha scelto una linea pragmatica, ha governato il consenso per arrivare all’unanimità. Non si è fatto condizionare dal conservatorismo tedesco né dalla preoccupazione di rimuovere un residuo di pregiudizio anti-italiano che comunque lo lambisce.
Nella corsa alla guida della Bce, i tedeschi lo avevano accolto con diffidenza.
Partiti dalla vecchia idea che, «oddio un italiano abituato all’inflazione come al sugo sugli spaghetti» non era una grande idea, hanno poi cominciato a correggere il tiro. La Bild Zeitung in primavera ha pubblicato un fotomontaggio amichevole: Draghi munito di elmo prussiano.
Così, per chi lo conosce, è un esordio in linea con le sue caratteristiche, più leader che manager, zero ideologia, concretezza e indipendenza intellettuale. A parte alcune spigolature biografiche, di cui più avanti, la storia di Draghi è innanzitutto la storia di un ragazzo che negli anni 70 capisce, primo tra gli italiani della sua generazione, che l’incipiente globalizzazione sarà fatta innanzitutto di rapporti internazionali.
Lo scopre a Boston, al Mit, dove arriva dopo la laurea in economia a Roma con Federico Caffè, figura mitica di keynesiano, maestro di un paio di generazioni di economisti, misteriosamente scomparso nel 1987 senza tracce, in una confusione di ipotesi anche stravaganti sulla sua fine. Al Mit, Draghi entra nell’orbita intellettuale di due futuri premi Nobel, Franco Modigliani e Robert Solow, e in contatto con un sistema di accademici e di studenti che vanno da Ben Bernanke a Larry Summers, da Rudi Dornbush a Stanley Fischer, da Hal White a Glenn Loury, fino alla piccola pattuglia degli italiani, tra cui Francesco Giavazzi, grande amico da 40 anni.
Il suo compagno di appartamento a Boston, Steve Bookbinder, ha descritto
alla Bbc la loro vita di allora: studenti con pochi soldi in tasca, pasta, vino a buon mercato, canzoni dopo cena e Boston Celtics alla tv.
Questa rete di amicizie sarà irrobustita dall’esperienza alla Banca mondiale dal 1984 al 1990 e poi via via implementata dallo svolgersi della sua carriera, sempre con un occhio ai rapporti internazionali, dalla Goldman Sachs al Financial stability board.
Un network di 3-400 persone insediate nelle burocrazie internazionali, nelle grandi università occidentali, nei circoli di politiche economiche e nelle
istituzioni private come il board of trustees dell’Institute for advanced study di Princeton.
Sono quei rapporti a base di «How are you, Mario?» che scateneranno, negli anni del dualismo, le gelosie di Giulio Tremonti, che lo ha considerato un antagonista, ma questa è un’altra storia.
Draghi non è solo relazioni globali. Ci sono altri tre aspetti da analizzare. Innanzitutto la formazione. Dopo avere studiato economia e fatto per alcuni anni il professore, a un certo punto smise. Alcuni dicono che ciò avvenne sotto l’influenza di un grande amico, un geniale finlandese di nome Pentti Kouri, che aveva lasciato l’accademia per fare l’imprenditore con successo, anche economico: cementiere in Cina, poi produttore cinematografico e imprenditore informatico.
Draghi scelse le grandi burocrazie. Come scrive Stefania Tamburello in un libro-ritratto appena uscito (Mario Draghi, il governatore, Rizzoli Etas), viene mandato in Banca mondiale da Giovanni Goria. Periodo poco studiato della sua vita.
Nel 1991 Carlo Azeglio Ciampi lo chiama alla direzione generale del Tesoro, che rifonderà completamente con tutta l’esperienza molto raccontata dei Draghi boys, del consiglio degli esperti (tra i quali Roberto Ulissi, Dario Scannapieco, Veronica De Romanis, il geniale Gianluca Garbi, poi fondatore del mercato italiano dei titoli di stato), di lui che non mette mai il cappotto, del ruolo nel risanamento post Tangentopoli, privatizzazioni incluse. Esperienza segnata, nel racconto successivo di quella stagione, dalla polemica sul Britannia, lo yacht della regina d’Inghilterra, dove il Tesoro incontrò le banche d’affari internazionali in cerca di consulenze per la privatizzazione di un pezzo delle imprese statali italiane. Si dice che nei dieci anni al Tesoro sia emerso uno degli insegnamenti peculiari di Caffè. Bisogna essere eterodossi in accademia per evitare i conformismi. E ortodossi nelle istituzioni, ma senza riporre cieca fiducia nelle regole consolidate. Spunto da tenere a mente per il futuro.
A completarne il profilo l’esperienza di mercato, il ruolo nel board della
Goldman Sachs, la più importante banca d’affari del mondo, dove uscito dalla direzione del Tesoro lavorerà per tre anni, esperienza che sarà poi guardata con sospetto dai suoi avversari. Anche lì nuovi rapporti. Il presidente era John L. Thornton (oggi professore di economia a Pechino), l’amministratore delegato Hank Paulson, poi potentissimo segretario al Tesoro di George W. Bush.
Il successo di Draghi dipende anche da un consolidato senso del potere. Attento a evitare gli strappi. Per esempio, quando arriva in Banca d’Italia dopo la tempestosa uscita di Antonio Fazio si muove con circospezione. Innova la vigilanza, l’organizzazione interna, lo stile (per esempio Considerazioni finali assai più asciutte).
Mentre nei contenuti prosegue il tradizionale ruolo di pungolo all’azione di governo su crescita, competitività, rigore in finanza pubblica e introduce un elemento nuovo calcando la mano su scuola, ricerca e giovani. Uscendo da
Via Nazionale, gioca le sue carte nella successione. Punta su Fabrizio Saccomani contro Vittorio Grilli e Lorenzo Bini Smaghi, e incassa senza apparenti reazioni la mediazione del Quirinale su Ignazio Visco.
Aria da sfinge, paziente ascoltatore, perenne autocontrollo. Buoni rapporti con i media, anche in questa fase dove, salvo qualche eccezione, per esempio un ruvido articolo di Foreign Policy, ha incassato una favorevole rassegna stampa molto a base di «Supermario». Dai media continuamente sollecitato, sa quando parlare e quando tacere. C’è in merito un aneddoto imbattibile. Un giorno, per caso un giornalista lo incontra in un’ascensore e gli chiede: ”Ma lei è Mario Draghi?”. “No” è la risposta.
Imperscrutabile pokerista, con una dose di fortuna. Come spiega un anonimo analista di draghitudine, «si trova ai crocevia delle situazioni complesse in momenti a lui favorevoli». Quando va via Fazio dalla Banca d’Italia, c’è un candidato naturale come Tommaso Padoa-Schioppa, ma Draghi prevale, perché «Tps» viene considerato più brusco nei rapporti politici.
Diventa capo del Financial stability forum, organismo fino a quel momento secondario, ma la crisi globale propiziata anche dal pasticcio Lehman promuove l’organismo, ribattezzato Financial stability board, a braccio tecnico dei G20, interlocutore dei vertici dei capi di stato e di governo a cui non partecipano i ministri finanziari. Altro colpo di fortuna aver trovato sulla strada per Francoforte un concorrente come Axel Weber, ex governatore della Banca centrale tedesca, che Angela Merkel avrebbe voluto come successore di Jean-Claude Trichet alla Bce. Weber più che un grande dirigente internazionale si rivela un professore caratteriale, scalpitante, che lascerà Draghi in pole position. Un amico di entrambi nota come del resto
«Axel aveva sempre temuto e subito la personalità di Mario, perché Mario è più navigato».
Questo è un ritratto del Draghi pubblico. Poi sullo sfondo c’è la dimensione privata che gli dà – come sempre accade nei romanzi del potere – un certo tono letterario. Figlio di un alto dirigente bancario di origini venete e di una farmacista irpina, orfano adolescente di entrambi i genitori, è il più grande di tre fratelli che cresceranno con una zia. Scuole a Roma, al Massimo, gesuiti, fra Luigi Abete, Luca Montezemolo e Giancarlo Magalli. Maestro di tutti loro padre Rozzi, noto per avergli trasmesso la disciplina della concisione: i concetti vanno espressi in tre righe.
Moglie di un’antica famiglia del Nord con ascendenze medioevali. Frequentazioni e amicizie normali, come si usa dire nel gergo minimalista di quella società che in realtà normale non è. Un po’ di golf. Figli perfettamente internazionalizzati. Grande casa di famiglia a Stra (Ve), sulla riviera del Brenta, prepalladiana, Villa Badoer-Draghi, portico con tre archi a tutto sesto, chiusa da alcuni anni e che, nella inevitabile malinconia delle case di provincia, a lui piacerebbe un giorno rimettere a posto.
Tutto questo complesso di cose e fattori identitari lo inserisce in un gruppo di personalità che in Italia hanno assunto un ruolo e un peso politico
partendo da due caratteristiche comuni: l’estrazione borghese (scuole, educazione, origini) e la provenienza dal mondo dell’economia. Si va da Romano Prodi a Mario Monti, allo stesso Tremonti, fino alla generazione dei banchieri affermatisi negli anni 2000.
Chi conosce Draghi riflette: il capo della Bce, l’uomo che dovrà salvare l’euro, sa cos’è il potere ed è in grado di esercitarlo. Ma rispetto alla leadership c’è anche una specie di riluttanza da parte sua. Francoforte gli servirà anche a fare uscire da questo dubbio quelli che guardano a lui.
Marco Ferrante