Ritratti – Vittorio Minciato

Vittorio Mincato

Il Foglio, 15 gennaio 2005

E’ errato usare ‘onde’ con l’infinito. Non si scrive “onde regolare la materia, è stata adottata una procedura”, ma “per regolare la materia…”. (dalla nota ufficiosa “Si scrive, non si scrive”, 1985, attribuita a Vittorio Mincato).

  1. – Quando si cominciò a parlare di lui, nessuno dentro l’azienda riusciva a farsi una ragione del fatto che un uomo apparentemente così fuori ruolo e privo di attrattive potesse ascendere al soglio di Enrico Mattei. E, nonostante i risultati dei suoi sette anni al vertice dell’Eni, forse quel pregiudizio resiste ancora, perché è un uomo abbastanza inafferrabile.

L’Eni è la più grande impresa italiana. Fattura oltre 50 miliardi di euro, ha una capitalizzazione di borsa di poco meno di 70 miliardi, ha ancora abbastanza dipendenti (circa 76.000, di cui la metà all’estero) per sentirsi una comunità influente. Ha una identità sua propria che sopravvive agli uomini, e una specie di superego d’azienda fondato sulle origini mitiche, sulle tradizioni, sui legami internazionali, sulla cultura d’impresa (la visione, per esempio. E dopo vedremo che cos’è), sulle storie degli uomini e delle cose: Bescapè, la flotta aerea, il primo velivolo occidentale che ritorna a Teheran dopo la fine del komeinismo e che porta le insegne Eni, i due carrozzoni-roulottes che Eugenio Cefis allestisce e che sistema a Torvajanica e all’Isola Sacra e in cui durante il fine settimana riceve gli amici a bere vino e a mangiare formaggio, le meraviglie della Saipem 10000, la più efficiente unità di perforazione offshore al mondo (dislocamento

96.000 tonnellate, lunghezza fuoritutto 228 metri, potenza 60.000 hp, equipaggio 160 persone, profondità massima di perforazione 30.000 piedi, sistema di ancoraggio satellitare, grazie a sei motori che aggiustano automaticamente la posizione della nave

sulla base delle informazioni ricevute dal satellite).

Era quasi incredibile – quando nel 1998 Franco Bernabè lasciò la guida dell’Eni – che tutto questo finisse nella mani di un ragioniere di sessantadue anni, un amministrativo che s’era diplomato nel ‘56 all’istituto tecnico commerciale Fusinieri di Vicenza e che a vent’anni era entrato in Lanerossi – l’Olivetti del nordest – successivamente acquisita dall’Eni in onore delle politiche di responsabilità sociale sostenute dal centrosinistra.

La storia del ragionier Vittorio Mincato è fatta di molta letteratura. E’ una success story all’americana – il fattorino che si fa capo azienda e in tre anni raddoppia i risultati dei quaranta precedenti – ed è anche una storia di dormienti, una storia di uomini che sono diventati anziani, che covano lontani risentimenti, che condividono storie lontane e qualche segreto (drammatico alle volte), e nutrono rancori che a causa dell’età non possono più essere temperati dalle aspettative: non c’è più tempo, uno solo ha vinto ed è quello che nessuno si sarebbe aspettato, il ragionier Mincato.

La virgola non si interpone mai tra il soggetto e il predicato, nè tra il predicato e il complemento oggetto, nemmeno quando la modulazione della frase sembra chiederlo (ibidem)

  • – “Lo conobbi nel 1962, quando Mattei rilevò Lanerossi – racconta Adriano Caprara – ero responsabile del budget e controllo dell’Eni e avevo rapporti con il suo ufficio, era un impiegato. Sei anni dopo, Cefis mi mandò a Schio a fare il direttore generale di Lanerossi, con Lorenzo Roasio amministratore. Un paio d’anni dopo Mincato fu nominato direttore amministrativo”. A quel tempo nell’alto vicentino il lanificio Rossi era tutto. C’era stato un periodo in cui aveva dato da lavorare fino a 15.000 persone, e il salario delle famiglie veniva da lì. “Ci siamo diplomati e siamo subito entrati in Lanerossi“, racconta un amico di VM. Lanerossi era un pezzo di sé, ma questo non gli impedì di essere parte attiva quando l’Eni nel 1987 la cedette a Marzotto.

Mincato aveva lasciato il Veneto una quindicina di anni prima. Ricorda Caprara: “Fu io a portarlo a Roma, a metà degli anni ’70, quando ero presidente del gruppo Lanerossi, perchè era preparato, intelligente e gran lavoratore. Lo portai alla Tescon, la finanziaria del gruppo Eni che raccoglieva le nostre aziende tessili. Anche lì faceva il direttore amministrativo, e conservò lo stesso incarico in Lanerossi. A Roma fu notato da Leonardo Di Donna, che allora era il potente direttore dell’attuazione, cioè il controllo dei programmi e dei risultati gestionali del gruppo. Per scherzare, ancora oggi mi ricorda ‘quando mi cedesti all’Eni’”. Fa una carriera rapida. Nel 1977 diventa direttore amministrativo dell’Eni. Poi il momento decisivo: 1984. Franco Reviglio, nominato alla presidenza, lo chiama a fare il suo assistente. “Quando arrivai – dice Reviglio – non conoscevo nessuno all’Eni. Il mio primo passo di prendere come mio assistente Franco Bernabè che arrivava dall’ufficio studi della Fiat. Dopo sei o sette mesi mi resi conto che Bernabè era perfetto per i numeri, ma anche lui aveva il mio stesso problema, era estraneo all’azienda, non conosceva abbastanza gli uomini. Così presi come assistente Mincato”.

I nomi dei mesi si scrivono minuscoli (ibidem)

  • – Torrebelvicino. I Mincato tenevano un piccolo negozio di alimentari a Torrebelvicino, un paese a due passi da Schio, puro nord-est. Sono stati i luoghi di una delle più profonde trasformazioni sociali della storia italiana, dai metalmezzadri alla delocalizzazione. Mincato è nato nel ’36. Si ricorda l’Italia fascista. E’ stato balilla, si ricorda le adunate del sabato e la maestra con la camicetta nera e il nome semplice (Teresa e non Clorinda), e le scuole elementari, ogni anno ospitate in un edificio diverso, causa la guerra. Si ricorda le medicine dell’infanzia, il paliano, la vermolina e l’olio di ricino, e i giochi dei bambini – una macchina di legno che corre su un pendìo, ma hanno

dimenticato di fabbricare i freni – e il regalo, l’unico regalo dell’anno, ricevuto il giorno

della Befana. Questo è tutto scritto in una piccola raccolta di memorie personali di cui

più avanti (cfr. par. 5).

Gli ammortamenti non si destinano, né si accantonano; si stanziano (ibidem)

  • – L’Eni all’arrivo di Reviglio è un’impresa dall’identità confusa e dai conti in disordine. La funzione sociale che il sistema dei partiti gli impone di sostenere l’ha trasformata in una conglomerata petrol-chimico-tessilemineraria. Alla fine degli anni ’70 ha allargato ancora il suo perimetro perché ha assorbito una parte delle imprese dell’ente di gestione per l’attività mineraria, l’Egam. Accanto all’originaria, alta missione dell’approvvigionamento di energia, strategica per un paese senza materie prime, deve assolvere tre compiti indispensabili: a) sostenere l’occupazione, dunque pagare il maggior numero di stipendi possibile; b) deve garantire un effetto di ricaduta sull’economia reale del paese, i suoi stabilimenti devono generare indotto, devono assicurare forniture all’economia circostante; c) deve provvedere al finanziamento del sistema dei partiti (la maggior parte degli scandali pre-Tangentopoli coinvolgono l’Eni: Italcasse, Eni- Petronim, etcaetera. E sull’Eni il sistema dei partiti muore, con la vicenda Enimont). Per l’ente idrocarburi sono anni di contabilità in rosso. Nel 1982 e nel 1983 l’Eni perdette

1.200 miliardi di lire, sostanzialmente finanziati dal debito pubblico.

Le società non si creano; si costituiscono (ibidem)

  • – Reviglio che ha già dato prova di sé da ministro delle finanze, è il primo dei capi azienda che cercheranno di riportare i conti sotto controllo. Ma è un presidente isolato.

La holding di cui è a capo era debole, mentre le società operative erano fortissime con marchi considerati superiori a quello Eni. “Perché scelsi Mincato? Perché era uno splendido direttore amministrativo. Aveva una grande capacità tecnica ed era un esecutore fedele. Era anche un ottimo segretario di giunta. Sapeva istruire le riunioni, ascoltare il parere delle direzioni, e preparare i dossier”. Nella sua funzione di segretario di giunta (che nello statuto matteiano è l’organo che detiene i poteri, concessi in delega al presidente) il futuro amministratore esprime la principale delle sue caratteristiche. E’ un ottimo conoscitore di procedure, è un uomo d’ordine. Racconta un testimone: “Ha fatto suoi figli – vessati, ma amati – gli uomini dell’ispettorato, la struttura che dipende dal direttore amministrativo e che permette di esercitare un potere di conoscenza sull’immensa periferia dell’impero”. Mincato, che – come osserva un altro testimone – ha un’idea provvidenziale del suo potere, fiancheggia l’azione di Reviglio tenendo i fili dei rapporti, esercitando con la maniacale cura del suo carattere una occhiuta vigilanza. Con dei rislvolti buffi alle volte. Le determinazioni del presidente erano lo strumento con cui venivano esercitate le deleghe e a cui veniva affidata l’organizzazione della vita aziendale. Essendo Mincato un ammiratore delle parole scritte e del loro “manent”, una volta fermò un dirigente che aveva organizzato un corso di formazione interno, e gli disse: “Lei ha contravvenuto la determinazione del presidente numero ‘x’. La determinazione diceva corso per neodirigenti e lei ha scritto corso per dirigenti di prima nomina”. Detesta l’imprecisione.

Fatta eccezione dei nomi propri di persona e di luogo, meno maiuscole si usano, meglio è. (ibidem)

  • – Per farsi un’idea della psicologia di Mincato, bisogna leggere “Si scrive, non si scrive”, una via di mezzo tra la nota e il piccolo manuale che nel 1985 VM, assistente del

presidente, mette ufficiosamente in circolazione. Doveva servire a migliorare la

redazione di lettere, documenti, circolari, a porre un argine al declino della lingua, a

rieducare il personale dell’azienda ormai sulla strada dell’analfabetizzazione (qui ne trovate qualche estratto in testa a ogni paragrafo). E’ un vero capolavoro di pedagogismo. Ma non solo: vi si rinvengono gusto per la lateralità, cura ossessiva per la minuzia, eccentricità, un elemento nostalgico per le differenze gerarchiche (è innanzitutto un documento che si rivolge ai suoi collaboratori della direzione amministrativa e che poi lento e clandestino si fa strada a colpi di fotocopie nelle segreterie), e poi una vena strisciante di follia, testardaggine, e infine un segno del carattere che rende Mincato abbastanza unico: l’alterigia incorrotta, secondo la conclusiva definizione di un grande amico. In questo caso VM da solo a difendere la lingua.

A distanza di vent’anni, il “Si scrive non si scrive”, caduto in disuso, è ancora un argomento di conversazione in Eni, anche per chi è arrivato dopo e non l’ha mai letto, ma ne ha sentito parlare da testimoni diretti. Anche ironicamente, ma non solo, viene considerato una prova di grandezza.

La ‘x’ pone seri problemi estetici. I puristi suggeriscono di scrivere ‘baussite’ anziché ‘bauxite’, ‘tassì’ anziché ‘taxì’. Ma il rimedio è peggiore del male. Teniamoci la ‘x’ e scriviamo ‘taxì’. (ibidem)

  • – Nel 1979, dopo aver partecipato a una festa di amici d’infanzia, VM decise di pubblicare a sue spese una micro-rilegatura di sei pagine di diario scritte otto anni prima in occasione di una precedente festa di coscritti: “Si chiamano così, dalle mie parti, quelli che sono nati nello stesso anno; appartengono cioè alla stessa classe”. Regala “La classe” alle persone che gli sono simpatiche, anche all’Eni. L’anno dopo ripete l’esperienza, con il primo dei “Coriandoli”. Dodici pagine sugli anni dell’infanzia e della prima giovinezza a

Torrebelvicino, firmate però con uno pseudonimo, Vittorio Veneto. Nel 1983, i ricordi di VM diventano un libriccino pubblicato da un piccolo editore di Schio. Sei capitoli sul nord-est prima che diventasse nord-est. Interessanti, tolto il compiacimento, VM ha talento. Un paio d’anni fa, dopo una lunga pausa, ha scritto un altro capitolo, sulla piazza del paese e su suo fratello maggiore morto alcuni anni fa, il talentuoso Giuseppe, detto il Menga (“un ristoratore geniale”, racconta Pietro Marzotto). Recentemente VM è tornato a lavorare sui “Coriandoli”, perchè gli piacerebbe ripubblicarli. Ma come sono scritti? Ecco il parere di Filippo La Porta, critico letterario, esperto di letteratura italiana contemporanea: “la prosa è molto educata, ma con un po’ di maniera. C’è un eccesso di ricercatezza, di insistenza letteraria che ne rivela il dilettantismo. E ho trovato qualche traccia di una specie di stile funereo che tende a tenere sotto eccessivo controllo la vita. Nel complesso, mi ha fatto venire in mente un altro grande outsider della scrittura, Salvatore Satta”. Abbiamo chiesto a Giuliano da Empoli, amministratore delegato di Marsilio se pubblicherebbe Mincato: “Quello che ho letto è interessante. C’è la mano di un autore, e uno stile riconoscibile. Forse è un po’ affettato, andrebbe sottoposto a un editing”.

‘Peraltro’ è usato correttamente quando al suo posto si può mettere ‘del resto’ con significato leggermente avversativo. (ibidem)

  • – Fu suo fratello a trasmettergli la passione per la musica. E siccome VM raramente fa le cose a metà, ha imparato a leggerla e ne scrive. Come per i “Coriandoli”, per alcuni anni ha pubblicato a sue spese dei libriccini, brevi saggi, inviti all’ascolto, mandati in regalo ai colleghi più stretti e a qualche amico. Della musica gli piace l’architettura, gli autori complessi, la cerebralità. Gli inviti alla lettura sono dedicati a Bach, Mozart, uno Stabat Mater di Rossini, la terza sinfonia di Anton Bruckner, parecchio Wagner, che è la

sua passione, con una originale lavoro su Le Fate, la prima opera del musicista tedesco,

che in sé rappresenta una scelta singolare. Del resto anche in questo caso, la sua è la

storia di un dilettante di genio. E di uno spaesato, di una persona in cui c’è sempre un elemento incomprensibile.

Molti di quelli che ricevevano i libriccini per Natale non li capivano. Ancora oggi li chiamano i suoi scritti, le sue cose. Gli attribuiscono da una parte la prova che egli sia migliore di quello che sembra, di essere un uomo che non si accontenta; dall’altra ci trovano un elemento di eccentricità, e di umanesimo che compensa quel suo essere un maledetto uomo d’ordine, un ispido uomo di conti. Naturalmente questo stesso sentimento comune mentre concede una possibilità al riscatto, al tempo stesso si chiude in una cupa visione borghese e sotto sotto imputa a quei libretti la responsabilità di essere velleitari.

Questo accade perlopiù in città. In provincia, invece, gli stessi libretti vengono giudicati la prova di una intelligenza superiore che si conferma nell’eclettismo e nel barbaro ingegno. Gli amici veneti dicono infatti “che era destinato a scrivere libri”; e qualcuno confida che se avesse potuto seguire la sua inclinazione avrebbe fatto il giornalista oppure il musicologo.

‘pervenire’ significa ‘arrivare con difficoltà’. Quindi un documento che giunge a destinazione in tempo normale ‘arriva’; solo se giunge in ritardo o per vie tortuose ‘perviene’. Sul piano morfologico, poi, occorre ricordare che questo verbo è composto da ‘per’ e ‘venire’; e come non c’è un venimento non c’è nemmeno un ‘pervenimento’. (ibidem)

  • – VM non piace a quella parte del ceto politico che ritiene che l’Eni debba essere uno strumento di politica industriale, cioè debba tornare a essere uno strumento al servizio dell’occupazione e dello sviluppo, cioè quelli che non si sono rassegnati al fatto che

questa sia una società quotata in cui il tesoro resta il primo azionista (30 per cento), ma gli investitori istituzionali controllano il 40; quelli che lo considerano disomogeneo al mainstream clientelarpoliticardo; non piace ai vecchi nemici che dentro l’Eni hanno chinato il capo, ma che sarebbero sempre disponibili a congiurare. Nel 2002 rischiarono di essere accontentati, quando nella maggioranza di governo ambienti sparsi organizzarono una pressione perchè Mincato fosse avvicendato, sperando di trovare nel tesoro una sponda che non fu utile quanto ci si aspettava. dal canto suo Mincato fu abilissimo, ebbe una reazione immediata. Si aggiudicò l’intervento dei fondi americani che lo difesero apertamente, perchè per loro la gestione Mincato era stata molto vantaggiosa, e arrivarono persino a minacciare – secondo alcune ricostruzioni – l’uscita dal capitale. In parallelo negoziò direttamente con il presidente del consiglio la sua riconferma. Berlusconi decise per il sì. Il ministro dell’economia ne fu informato tre ore dopo.

Il succedersi di più correlazioni paratattiche nello stesso periodo, o in periodi immediatamente successivi, appesantisce l’esposizione (ibidem)

  1. – Non piace a quelli che dicono: non ha visione. Nell’antico linguaggio dell’ente, la visione era la capacità di traguardare, di stare al passo con la grandezza visionaria appunto, di Mattei. La visione – soprattuto quella raccontata dai vecchi – è un complesso di cose, è fatta un po’ di strategia, un po’ di sogno, un po’ di politica internazionale. L’Eni è internazionale, e da questo punto di vista la visione è quasi uno stato d’animo. Esso stato d’animo è immerso per lo più nell’iconografia che descrive Mattei campione del terzomondismo e della diffidenza anti-americana. Anche se, secondo una tesi alternativa, l’Eni di Mattei non fu davvero terzomondista, se non per l’interesse del momento, e fu sempre profondamente iscritta in una dimensione atlantica. Spiega

Valerio Castronuovo: “Sebbene l’Italia fosse un paese cerniera tra est e ovest e tra

Europa e Medio Oriente, la sua politica era una politica atlantica e l’Eni ne era parte, con

un margine di movimento. Ma la funzione di indipendenza dell’Eni era rigorosamente iscritta nell’alleanza con gli americani, del resto Mattei era un anticomunista feroce e l’America un riferimento naturale”. Anche le offerte vantaggiose ai governi produttori di petrolio andrebbero iscritte in questo gioco. Mattei fu il primo a farle, ma anche le majors, le favolose sette sorelle si preparavano a trattare con i produttori concedendo loro di più. Mattei era dunque un fuoriclasse, un grande giocatore messo sull’ala, ma giocava per l’Occidente. Continua Castronuovo: “Anche i rapporti con l’Unione Sovietica – condivisi con l’ammiraglia dell’industria privata, la Fiat – sono una parte di questa vicenda. E gli Stati Uniti che all’inizio erano sospettosi, dopo il placet di J.F.Kennedy al centrosinistra e allo stabilimento di Togliattigrad non considerarono più la questione un problema”.

Alle preposizioni a e alle congiunzioni a ed e si aggiunge la d eufonica soltanto quando la parola che segue inizia con la stessa vocale (ibidem)

  1. – Secondo un’indagine conoscitiva chiusa il 17 giugno del 2004, la commissione antitrust italiana ritiene che permanga “una inconfutabile posizione dominante di Eni nell’approvvigionamento di gas in grado di condizionare fortemente l’esito del mercato”, in quanto controlla le infrastrutture di trasporto, i gasdotti. Qui c’era forse un punto di debolezza nella strategia dell’Eni. A partire dal 2002 e fino al 2010, la società è obbligata dalla legge a ridurre progressivamente anno per anno la sua quota di immissione di gas sulla rete italiana. Questa limitazione dovrebbe servire ad aprire il mercato del gas e a creare pluralità di forniture al nostro sistema, cioè alle imprese che acquistano direttamente e ai fornitori di gas domestico. Le autorità di regolazione, insieme ad alcuni ambienti politici e naturalmente ai concorrenti, coltivano il sospetto che l’Eni speri di

arrivare al 2010, quando le soglie antitrust scadranno, senza che alcun operatore concorrente abbia investito in infrastrutture di importazione. Questa congettura sarebbe rafforzata dal fatto che realizzare infrastrutture di importazione è difficile. Le due principali iniziative – i progetti per due rigassificatori a Rovigo (ExxonMobil, Qatargas ed Edison) e a Brindisi (gli inglesi di BG ed Enel) che servono a convertire allo stato gassoso il prodotto liquefatto, trasportato via nave – incontrano molte difficoltà. Dicono che Mincato si sia reso conto del rischio di apparire come lo strangolatore del mercato e che pertanto abbia deciso di aumentare la capacità di importazione dei suoi gasdotti a disposizione di altri operatori in ottemperanza alle richieste dell’autorità di regolazione e delle due antitrust, quella di Roma e quella di Bruxelles. Con una mossa che sarebbe risultata un grande azzardo ai tempi del Fusinieri, ma che giustifica pienamente l’onore accademico concessogli dal Politecnico di Milano e dall’Università di Torino, Vittorio Mincato continuerà a essere padrone del mercato, mettendo gas a disposizione dei concorrenti un metro aldilà della frontiera italiana.

‘Scaturire’ è l’uscire all’esterno di acqua sotterranea e si usa figurativamente per indicare l’uscire abbondante di qualsiasi cosa a somiglianza dell’acqua. Significa anche ‘derivare’, ma in questo senso è termine inadeguato a un linguaggio tecnico (ibidem)

  1. – Una volta, chiacchierando, lui stesso riconobbe ironicamente la cosa: “Ho cominciato a lavorare a diciott’anni, ho avuto a che fare per tutta la vita con fisco e contabilità, il minimo è che io abbia un caratteraccio”. I veri amici sostengono che dire caratteraccio non è sufficiente, non gli rende abbastanza giustizia. Breve elenco di aggettivi e definizioni raccolte: a volte protervo, duro, severo, psicologicamente trattenuto, la sua diffidenza non ha portato a compimento la parte intuitiva dell’intelligenza, ma è anche modesto, ha onestà di giudizio e la correttezza delle persone

semplici. Sembra aspro anche con se stesso, ha scritto di avere sempre avuto scarsa

considerazione di se a causa di sua madre: gli insegnava che gli altri erano migliori di lui. Emilio Tadini con cui era nato un rapporto di amicizia, raccontò che “Mincato è un uomo buono”. Un ex collaboratore nega. Dice che non è affatto buono, che è inflessibile e inesorabile, dotato di una cattiveria dimostrativa come tutti quelli che comandano, soprattutto quelli cui piace farlo. Naturalmente, la personalità di Mincato non si esaurisce nello schema binario buono e/o cattivo. Assomiglia a quel tipo d’uomo che allena se stesso alla sgradevolezza che i sentimenti sanno suscitare. Pag. 46 dei “Coriandoli”: “Ci sono tre cose che mi sono sempre parse realizzare il colmo del ridicolo della vita umana: un uomo sorpreso con i pantaloni in mano, metà su e metà giù, il pianto di una donna che non si ama più, e la brodaglia giallastra che, dopo aver inturgidito le braghette, scende, tingendo le cocche del grembiule, lungo le gambe di un bambino, al quale la mamma sciagurata ha fatto ingoiare, al mattino, una purga troppo forte e cammina lentamente a gambe larghe per evitare almeno di strofinarsi le ginocchia  striate dell’indesiderato unguento”. Questa spietata acutezza è anche un prodotto dell’ambiente. Mincato viene dalla provincia profonda, che è una imbattibile scuola di autodifesa. (Del resto, nel giro delle sue conoscenze circola una congettura su VM che avendo paura di non essere abbastanza cattivo, costringe se stesso al cinismo fino a ridurre il terribile in ridicolo – il bambino dalle braghette inturgidite! “Una volta l’ho visto sorridere di felicità

  • dice una persona – ed era felicità pura, è stato un attimo, si è subito ricomposto”. Un simile sorriso compare in una clip realizzata in occasione della laurea honoris causa in ingegneria al Politcnico di Milano, in cui Mincato parla a lungo di se stesso: al momento di ricevere un applauso, la sua faccia si apre in un sorriso, che repentino si irrigidisce in una smorfia).

N.b.: c’è una cosa che fa riflettere. Sebbene le persone che lavorano con lui, gli amici, i suoi interlocutori credono al modello che loro stessi contribuiscono a creare dell’uomo potente ma riservato, schivo, silenzioso e chiuso, sorprende scoprire che Mincato sia un uomo potente che ha raccontato di sé in prima persona molto più della media. Gli inviti

all’ascolto, i Coriandoli (regalati ad amici che per loro stessa natura di amici prima o poi parlano), oppure le clip di presentazione realizzate per le lauree ad honorem.

Da un bel po’ “tra” e “fra” sono divenuti sinonimi e ciò consente di impiegarli senza distinzione di significato: si badi però di impiegarli in modo esteticamente plausibile, evitando cacofonie (ibidem)

  1. – Altre stranezze di Mincato. Innanzitutto il titolo di cui si servono i suoi dipendenti. Prima che diventasse il numero uno, lo chiamavano ragioniere. Quando arrivò al comando, l’opinione pubblica interna ritenne che non si potesse più fare, e si decise per la formula vagamente condominiale di amministratore, rimasta naturalmente anche dopo le lauree honoris causa. Ogni tanto, qualcuno più zelante tanto per cambiare gli dice “ingegnere” e lui educatamente risponde.

La Scala. Alcuni anni fa, è stato chiamato a far parte del consiglio di amministrazione della Fondazione del teatro. Massima soddisfazione per un cultore della materia. Ma è talmente poco permeabile, così convinto di rappresentare l’unica misura possibile, che tanto per farsi conoscere, il primo atto fu quello di votare contro il bilancio per fatto formale. Stupendo. “E’ vero – racconta Carlo Fontana, sovrintendente del teatro – votò contro, perché non condivideva i criteri adottati, c’era un problema di ammortamenti su scene e costumi. Ma aveva ragione lui, e dall’anno successivo adottammo i suoi criteri. Quando entrò era molto critico perché noi ci comportavamo ancora da ente pubblico. Ci aiutò molto. Oggi quando dice ok, mi sento in una botte di ferro”. Commento di un conoscitore: “Tipico di Mincato. La cosa che più gli piace è sollevare un problema”. Ma è anche uno che non prende mai le cose sottogamba. Dice Carlo Secchi, già rettore della Bocconi, anche lui in consiglio: “trovo apprezzabile che con quello che ha da fare trovi anche il tempo per occuparsi della Scala”.

Altri dettagli: ha insegnato all’università della terza età di Schio, d’estate trascorre una

settimana di vacanza a Milano Marittima; gli piacciono le auto sportive, la letteratura

francese (specialmente Emile Zola), e si intende di pittura; nella sua scrittura c’è una costante nota di prurigine sensuale, spesso divertita. Esempio: nei “Coriandoli” racconta la storia di un padre Passionista che viene a predicare a Torrebelvicino a ridosso di Natale: è esile, canuto, rinsecchito, ossessionato dai peccati delle donne, arringa i fedeli per metà in dialetto e se la prende con queste ragazze di oggi che si mettono il belletto sulle labbra e si mettono le calze e si vedono tutte le gambe, cosa pensano di fare, l’inferno le aspetta e anche gli uomini che le guardano, e poi ci sono quelle che sono ancora peggio, che mettono le mani nelle tasche del fidanzato per cercare il fazzoletto, e se il fazzoletto non c’è e le tasche sono bucate? Le fiamme dell’inferno le aspettano.

“Pretto” è ciò che non è mischiato; si usa quindi in modo corretto “prettamente” quando al suo posto si può mettere “puramente”, “schiettamente” e simili, non quando si vuol dire “essenzialmente”; in questo caso è meglio scrivere “precipuamente”. (ibidem)

  1. – La chimica è un problema nella storia dell’industria italiana. Dagli anni settanta Montedison ed Eni se la rimpallano. Cefis lascia l’Eni per andare a guidare Montedison, prima di abbandonare a sorpresa la vita pubblica. Nel 1989 Franco Reviglio e Raul Gardini, il capo della Ferruzzi che ha comprato Montedison, fanno una joint-venure per fondere le attività chimiche italiane, lo stesso disegno di Cefis vent’anni dopo. Nasce Enimont. L’anno successivo Reviglio lascia l’Eni e viene sostituito da un componente della giunta, socialista, avvicinatosi a Claudio Martelli. E’ Gabriele Cagliari, il quale non ha mai amato Reviglio, e quando si insedia per prima cosa fa fuori Mincato. Lo fa con stile antico: lo spedisce all’estremo confine dell’impero, a Pordenone, a presiedere la Savio una società meccano-tessile dai conti disastrati rilevata dall’Eni molti anni prima.

Se Cagliari avesse potuto mandarlo a lavorare su una piattaforma – raccontano – lo avrebbe fatto. L’Eni è in condizioni politicamente disastrose, è il terreno di scontro dei partiti impazziti che stanno perdendo il contatto con la realtà, ma come tutte le strutture federate, come se fosse una Sicilia delle partecipazioni statali, ha delle caratteristiche sue proprie e vive di una sua logica del potere. E’ una struttura molto complessa, fatta di feudi, di società operative molto forti, governata da boiardi in larga parte arrivati qui ai tempi di Mattei, ma che sono strettamente collegati ai partiti. I feudatari, i consiglieri d’amministrazione, gli uomini di giunta sono in guerra genericamente tra loro e complessivamente contro Cagliari; tutti indifferentemente, socialisti e democristiani. Per gli appassionati sono cognomi mitici: Sernia, Ciatti, Grotti, Pigorini, Dell’Orto, Santoro, De Vita. Ma Mincato scompare dalla scena e sceglie di non partecipare neppure come frondista. Racconta Beppe Facchetti: “Quando nel 1992 entrai in giunta Eni in quota liberale, cercai Vittorio Mincato che stava a Pordenone per chiedergli di aiutarmi ad ambientarmi, perchè sapevo che era l’uomo che conosceva meglio di tutti la macchina Eni. Non volle stabilire alcun rapporto che potesse essere interpretato neppure come un vago corteggiamento da parte mia. Mi disse solo: l’unico consiglio che posso darle è quello di applicare il principio che regola l’Eni: stia con il presidente”. Questo dice l’uomo che è stato appena esiliato proprio dal presidente. Racconta un testimone di quella fase: “Ufficialmente si fa da parte in omaggio alle regole militari dell’azienda. In realtà scalda i muscoli per il dopo. Mincato è un fondista, ed è tagliente, conseguente con la sua linea”. Così VM si concentrò sulla Savio e proseguendo il lavoro avviato da Ciatti, rimise a posto l’azienda e la vendette a pezzi. “Questa è la grandezza di Mincato – dice un nemico – anche in esilio pensò a lavorare”. E a immaginare le sue mosse future. Nel periodo della Savio, durante un giro in Cina, dove andava a vendere machine tessili, conversando con il corrispondente dell’Eni a Pechino, questi si lamentò con lui della situazione dell’azienda a Roma. E lui tagliò corto, gli rispose che avrebbe ripreso a occuparsi di Eni, solo quando ne fosse diventato presidente.

“Attigue” sono due cose vicine fino a toccarsi; se, oltre a toccarsi, combaciano, allora esse sono “contigue” (ibidem)

  1. – Tra il 1992 e il 1993 si consuma la tragedia. Tangentopoli è molte cose, ma è soprattutto l’Eni. Nell’agosto del 1992, il presidente del consiglio Giuliano Amato, il ministro dell’industria Giuseppe Guarino e quello del tesoro Piero Barucci, con un blitz
  2. ben raccontato da quest’ultimo in un libro intitolato “L’isola del tesoro” – trasformano Iri ed Eni in spa, nominano consigli d’amministrazione ristretti, di soli tre uomini. I poteri passano a un amministratore delegato. A guidare l’Eni viene designato Franco Bernabè. E’ lui che deve amministrare la transizione societaria e gestire – com’è inevitabile – l’impatto con la magistratura. La classe dirigente dell’Eni finirà decimata. Come racconta alla Harvard Business Review, Bernabè rimpiazza in meno di due mesi più di 250 senior manager. Vittorio Mincato viene richiamato dall’esilio e gli viene affidato il lavoro più delicato, sistemare la chimica.

” Previo” è aggettivo in disuso (ibidem)

  1. – Sebbene i suoi nemici sostengano che la trasformazione sia costata in termini di mancato sviluppo e con il sacrificio di molte decine di manager, Bernabè fa dell’Eni una blue chip internazionale. Vende duecento delle quasi 350 aziende del gruppo. Riduce di quasi la metà il numero dei dipendenti, che erano 135.000 al momento del suo insediamento. Raddoppia la produttività del lavoro, porta la barra da un rosso di oltre 500 milioni di dollari del 1992 a profitti di 3 miliardi di dollari nel 1997. Quota l’Eni in borsa e il titolo passa dai circa 30 dollari del collocamento fino a 70. Nel 1998 se ne va per tentare di duplicare il successo con un’altra complicata privatizzazione, la Telecom.

Con un privilegio conquistato sul campo, suggerisce il nome del suo successore: Vittorio Mincato. Lo considera l’uomo più adatto a proseguire il lavoro avviato e a difendere le scelte del passato.

“destino” è l’insieme imponderabile delle cause che hanno determinato eventi decisivi e immutabili; nel linguaggio tecnico, quindi, l’uso di questo vocabolo è improprio. (ibidem)

  1. – Come dice Augusto Piccinnini, che fu capo del personale di Mincato al tempo in cui era un impiegato in Lanerossi, ed è uno di quelli che gli vuole bene, “il nostro giudizio è trascinato dal fatto che un uomo di provincia che arriva dall’azienda più limitrofa del gruppo Eni, ne sia diventato il capo”. Il punto è che pochi tra questi uomini, i colleghi di una vita, glielo perdonano. Un po’ per invidia, un po’ perché gli sembra che sia impossibile quello che hanno visto – cazzo, un ragioniere che si fa Dio – un po’ perché covano il risentimento dell’esclusione. “Questi uomini – racconta uno di loro (nessuno parla in prima persona e quasi tutti vogliono restare anonimi) – malsopportano di essere stati esclusi dalla vita dell’azienda”. Gli anziani a causa della pensione. I giovani, perché sono stati sbattuti fuori con Tangentopoli (la causa principale dei rancori, tutto è ancora vivo e ognuno conosce o ritiene di conoscere almeno un segreto), oppure con le ristrutturazioni successive. In fondo a Mincato rimproverano di essere sopravvissuto e di non avere avuto pietà quando gli è toccato di dover tagliare: “Ha dovuto prendere delle decisioni sulla vecchia nomenclatura – racconta un amico – e lo ha fatto, come avrebbe fatto chiunque avesse avuto a cuore il destino dell’azienda”. Quasi nessuno ha aneddoti sul suo conto, ma ciascuno ha una parola per raccontarlo: “era chiuso, taciturno, spigoloso”; “non ha mai fatto comunella con i dipendenti”; “diceva che la pianificazione è una cosa inutile, solo una facciata da tenere in piedi”; “era uno di quei veneti di una

volta, sior, sior”; “ha una visione forte di se, a volte esagerata”; “non spreca parole, ma è

una persona spiritosa a suo modo”; “freddo, sgarbato, non lasciava trapelare quello che

pensava, ma era un grande lavoratore, ogni cosa la rifà tre volte”; “era uno che aveva bisogno di studiare poco”. E un altro dice: “Bisognerebbe chiamare taldeitali per avere un giudizio, ma attenzione non è un suo ammiratore, è un idolatra”.

Le forme impersonali (si ritiene, si propone, etc.) nascondono processi di deresponsabilizzazione. Occorre precisare sempre il soggetto. (ibidem)

  1. – Alcuni credono che per ontologia del potere egli sia stato intimamente democristiano. Secondo Francesco Forte, ai vertici di Tescon, quando Mincato lasciò il Veneto per Roma, “era legato alla democrazia cristiana, aveva rapporti con gli uomini di Mariano Rumor; e separatamente con Tina Anselmi”. Interpellata, la Anselmi ricorda vagamente che c’era qualcuno nella posizione di direttore amministrativo della Lanerossi, ma non vi collega alcun nome. Un amico del paese nega che sia mai stato democristiano: “Credo che fosse un liberale, piuttosto, e che qualche volta non abbia votato”. Nella sostanza, dal complesso delle testimonianze sembrerebbe un laico, con un pizzico di scherzoso mangiapretismo. Il rapporto con la politica è la zona più grigia della sua biografia. Se ne tiene alla larga, ne è diffidente. Qualcuno ritiene che negli anni ottanta si sia avvicinato ai socialisti. Molti lo considerano di destra, “e forse lo è nel senso gerarchico che ha della vita, o per per il suo rispetto del principio d’autorità – dice un ex collaboratore – ma al fondo è solo una testa dura: autonomo nelle idee, sostanzialmente incontrollabile, spirito censorio”. Una delle poche persone per cui prova ammirazione è Carlo Azeglio Ciampi. Quando lasciò il Tesoro per andare al Quirinale, Mincato gli rivolse una frase di ringraziamento, e Ciampi, il quale coltiva lo stile borghese della gratificazione, gli rispose: “non deve ringraziare nessuno, lei”. Con Berlusconi che lo chiama “caro coetaneo” si dice vi sia quel certo animalesco reciproco riconoscimento di

chi ha cominciato da zero, e un mutuo interesse: a Mincato piace l’Eni, per Berlusconi non è agevole sostituirlo.

Il complemento di specificazione si usa solo quando c’è bisogno di specificare. (ibidem)

  1. – Diffida della politica, ma non è privo di passione politica. In una lunga intervista che rilascia a Roberto Napoletano, pubblicata in “Padroni d’Italia”, Sperling e Kupfer, emergono un gerto gusto per l’impostazione generalista dei problemi e spunti molto acuti di analisi dei fenomeni. Sulla Cina, per esempio, quando spiega che il boom economico cinese ha delle caratteristiche simili a quello dell’Italia degli anni cinquanta: basso costo del lavoro e grandi prospettive di crescita. La sua tesi in sostanza è che il vantaggio competitivo dei cinesi è destinato a durare meno di quanto generalmente si crede. Durerà finchè con la ricchezza non arriveranno le richieste di maggiori diritti. Racconta un osservatore che durante la presidenza confindustriale di Antonio D’Amato, Mincato era uno dei pochi componenti di giunta capace di far davvero pesare il suo punto di vista. E ogni tanto – soprattutto sulle materie che gli interessevano, a partire dalle politiche energetiche – riusciva a mitigare gli eccessi di mercatismo che caratterizzarono quella stagione di Confindustria. In generale, nella vita associativa, “è uno che esprime con fermezza la sua opinione anche quando non è l’opinione della maggioranza”, dice un testimone.

…Ugualmente da preferirsi è la forma non elisa nelle forme atone dei pronomi personali lo e la (es. ‘lo inserì’ e ‘la inserì’ è meglio di l’inserì). Anche nelle particelle pronominali mi ti si ci vi l’elisione è facoltativa, come nella

preposizione semplice di. La preposizione da invece non sopporta mai elisione.

(ibidem)

  • – Lo accusano di non guardare lontano, ma la visione di Mincato è quella del capo di un’azienda quotata. Nel periodo 1999-2003 – aiutato anche dagli alti prezzi del petrolio – sono cresciuti i ricavi, l’utile operativo e l’utile netto (quest’ultimo ben 5,58 miliardi di euro nel 2003). “Quest’anno – dice Davide Tabarelli, direttore del Rie – farà 6 miliardi di utile”. Nel periodo 2001-2004, Eni è il titolo con le migliori prestazioni della borsa italiana, con un rendimento complessivo poco al di sotto del 20 per cento. Da quando ha preso la guida dell’azienda (1998) fino a oggi il titolo è cresciuto dell’80 per cento, contro il 35 per cento medio dei titoli energetici, mentre il Mib30 ha perduto il 4 per cento. Nello stesso periodo l’Eni è passata da 45 miliardi di euro a poco meno di 70 miliardi di euro di capitalizzazione. Gli investitori istituzionali internazionali, quelli che all’inizio non volevano nemmeno sentirlo nominare, perchè non parlava di strategie, nè in inglese fluente (che ha cominciato a studiare dopo i sessant’anni), oggi lo adorano e lo difendono. Ha completamente ristrutturato l’azienda, accorpando le società operative e fondendole nella holding. Ha tagliato i costi. Ha continuato a smobilitare tutto quello che non è il cuore del business; per esempio ha venduto tutti gli immobili, anche le abitazioni di San Donato e lo stesso palazzo dell’Eni sul laghetto all’Eur, il parallelepipedo di Bacigalupo e Ratti: prima ceduto a un fondo americano e poi preso in locazione. Ha realizzato il gasdotto d’importazione dalla Libia che è l’unica infrastruttura energetica fatta dall’Italia negli ultimi anni.

A parte il gas che gli porta comunque circa un terzo degli utili (e il cui mercato continuerà a sviluppare soprattutto all’estero), si è concentrato sull’upstream del petrolio, la produzione; riducendo il downstream, raffinazione e distribuzione. Negli ultimi sei anni, la produzione di barili quotidiana è passata da un milione a un milione e settecentomila, grazie alle acquisizioni: le inglesi Lasmo e British Borneo e la norvegese Forum Petroleum. Con una intuizione che alcuni considerano la più importante della sua

amministrazione, è andato contro corrente sul capitolo delle fusioni. Resistette alle pressioni che arrivavano dal mondo politico, e che a ridosso della sua nomina suggerivano di cercare integrazioni internazionali, aiutato anche dal fatto che l’operazione su cui il governo italiano spingeva, l’unione con l’omologa francese Elf, fu vanificata dall’intervento repentino di Total. Alla fine, ebbe ragione lui, le grandi fusioni internazionali hanno avuto le loro vicissitudini, l’Eni è cresciuta da sola accorciando la distanza dai concorrenti più vicini. E ha rafforzato le alleanze. Adesso l’Eni ha sufficienti risorse finanziarie per tornare sul mercato, se si presentasse l’occasione di un buon colpo. Le aspettative di tutti sono sulla Russia, dove la spartizione di Yukos ha rimescolatro tutte le carte. Il corteggiatore, c’è: Rossneft guidata da Igor Secin, il quale con Mincato condivide la passione per la letteratura.

Le forme partitive hanno cittadinanza francese, non italiana (ibidem)

  • – Di base non si fida degli uomini, ma capisce le persone, e lui forse direbbe di non fidarsene proprio perché le conosce. E’ attentissimo ai rapporti di forza tra gli uomini: “a chi va a pestare i piedi?”, chiese una volta a uno che lavorava in una controllata e che veniva trasferito. Spiega un cultore della materia: “Quando una persona va a chiedergli una cosa, dalla più semplice alla più complicata, lui va sempre a caccia del movente. In questo guarda se stesso negli altri: crede che dare, significhi ricevere in corrispondenza. E’ la partite doppia”. Questo atteggiamento non gli ha dato la felicità, ma gli è servito a tenere sotto controllo l’azienda, anche quando non era il capo. E quando è arrivato in cima si è battuto contro chi cercava di farsi spazio. Lo scontro più duro è stato quello con Renato Ruggero. Voleva essere un presidente con deleghe operative. Voleva essere l’uomo delle grandi fusioni internazionali, ma Mincato che alle fusioni non credeva, lo marcò strettissimo. Non si parlavano, si scrivevano. Ruggero è un uomo spiritoso, e una

volta che l’ascensore in cui si trovava insieme con Meomartini si fermò, paventando una

piccola Bescapè, disse: “Alberto gridi che c’è anche lei, o tagliano i fili”. Poi arrivò Gros-

Pietro. All’inizio i rapporti furono difficili, poi il nuovo arrivato capì che qualunque scontro sarebbe stato tempo perso, fece qualche rinuncia e così riuscirono alla fine ad andare abbastanza d’accordo. Con l’attuale, Poli, dicono che ci sia una certa intesa. Per un fatto legato alla formazione ha patito anche la presidenza di Guglielmo Moscato, amato dall’azienda, ingegnere operativo, cultura internazionale, una vita spesa sui pozzi, una specie di Lawrence d’Arabia delle perforazioni, già a capo di Agip spa, il cuore del cuore dell’azienda, sede San Donato Milanese, business esplorazione e produzione. Era il confronto tra le due anime dell’Eni, quella manageriale espressa da VM, e prima di lui da tutti i capi azienda, e quella tecnica che dominava le società operative e di cui l’ingegnere era l’esponente più autorevole. Moscato però non combattè mai veramente; finito il mandato presidenziale se ne andò in pensione. Nel 2002 è tornato in consiglio di amministrazione come indipendente.

L’attacco di una preposizione con la locuzione “per quanto riguarda…” è un suicidio stilistico perché comporta quasi sempre difficili accorgimenti grammaticali e sintattici. (ibidem)

  • – Mister Vittorio Mincato ha passato all’Eni tutta la vita. Quarantasette anni. Ha messo a frutto le sue doti migliori, l’intelligenza delle procedure, la sveltezza, la capacità di servirsi degli uomini. Inoltre, l’istinto di mettersi al servizio di certe sue stesse paure, così, lui – che è un timido consapevole del giudizio sociale – sapeva che non solo doveva essere onesto, ma doveva sembrarlo, e in questo il fisico lo ha aiutato. Ha avuto pure il riguardo di non tradire mai se stesso e il suo pessimo carattere. Così che, come dice un grande vecchio dell’Eni, “Mincato non può essere immerso in nulla”. Ma è stato anche un uomo fortunato, almeno in due occasioni. La prima: quando l’esilio nella stagione di

Gabriele Cagliari lo mise al riparo dei proiettili vaganti che resero Tangentopoli ancora più drammatica. La seconda, sotto gli occhi di tutti: ha vissuto gli anni decisivi della sua amministrazione all’Eni con il petrolio alle stelle, e questo indubbiamente gli è stato utile. Per quanto riguarda il futuro, invece, ha ragione lui, sarebbe un suicidio stilistico mostrare troppo interesse per il problema. Vuole essere riconfermato, questo è sicuro. Ma alla domanda sulla riconferma, per il momento risponde alzando le spalle: è difficile leggere la politica, questo è il succo del suo ragionamento. Intimamente sospetta che sarà uno stillicidio, si aspetta giornate di incertezza, più o meno come nel 2002. Sa che decideranno all’ultimo momento i fondi americani e il presidente del consiglio, e sarà lui a comunicargli la decisione. “Caro coetaneo…”, gli dirà al telefono.

Marco Ferrante