Ritratti – Antonio D’Amato

Antonio D’Amato

Questo articolo con il titolo “Storia di un sogno, il movimento dei padroni” è uscito il 20 marzo del 2004 sul Foglio, alla vigilia del cambio di consegne tra Luca di Montezemolo e il suo predecessore Antonio D’Amato. È un ritratto e un bilancio dei quattro anni di presidenza di Confindustria di D’Amato, in cui si ritrovano gli stessi ingredienti di oggi: dal rapporto difficile con la Fiat al problema dell’articolo 18.

La vittoria netta e anticipata di Luca di Montezemolo alla guida del prossimo quadriennio della Confindustria, perfettamente logica per l’associazione degli industriali italiani, per dimensioni minaccia quasi di essere ingenerosa con Antonio D’Amato, il predecessore del presidente designato. Un caso forse più complesso di quanto la sua rapida uscita di scena farebbe sembrare. D’Amato è arrivato con il piglio dell’alieno a governare una struttura che pure conosceva da sempre, incarnando il modello dell’imprenditore giovane e ardimentoso che pretende di rompere gli schemi e di cambiare il mondo. E’ stato talmente coerente con l’impostazione radicale che aveva scelto, così cocciuto nella determinazione di porre fine alla tradizione torinocentrica che detestava, da perdere di vista l’obiettivo; così fermo sulle sue idee da sembrare infine quasi un estraneo nel mondo dove aveva vissuto per tutta la vita. D’altra parte c’è sempre un elemento imprevedibile, un elemento di incertezza, la variabile umana, avventurosa, a volte accattivante nelle storie personali immerse nelle stagioni di mezzo. E D’Amato è in pieno un uomo di passaggio. Quando prende la guida della Confindustria, sostenuto con un moto semirivoluzionario dalla base della

piccola e media impresa, appoggiato da Cesare Romiti e dalla simpatia di Silvio

Berlusconi, capo dell’opposizione, l’associazione degli industriali si trova – come tutto il paese – in piena transizione. I punti di riferimento di viale dell’Astronomia stanno cambiando. La Fiat, in crisi di prodotti, non è più il motore del sistema industriale italiano; non c’è più la Montedison; in generale tutto il peso e la presenza delle grandi imprese è diminuito; il 23 giugno del 2000 muore Enrico Cuccia; i rapporti della galassia del Nord sono in cerca di una nuova stabilità; la politica è alle prese con la lunga stagione del trapasso, i partiti ancora intimiditi dai postumi del 93-95, le coalizioni litigiose e disomogenee già guardano alle politiche del prossimo anno. I rapporti tra governo e industriali sono passabili. A Palazzo Chigi c’è Giuliano Amato e l’ultima Finanziaria del governo di centro sinistra è molto generosa con le imprese anche per scoraggiarle dall’abbraccio berlusconiano. Ma nel marzo del 2001, in campagna elettorale, l’associazione sceglie l’altra strada: a Parma si tiene un convegno confindustriale, presenti Francesco Rutelli e Silvio Berlusconi, i due candidati alla guida del governo. Per qualcuno è lì che si consuma il peccato originale della gestione D’Amato. A causa di una frase del futuro presidente del Consiglio: “Il vostro programma è il mio programma”, disse Berlusconi rivolto alla platea. Enrico Letta, all’epoca ministro dell’Industria e che ebbe un buon rapporto con D’Amato, nota: “Mi sembra che a causa di Parma l’opinione pubblica abbia associato Confindustria al fallimento della politica di governo. E questo dipende soprattutto dal fatto che Berlusconi ha pronunciato quella frase”. Il convegno di Parma segnò psicologicamente per Silvio Berlusconi un punto di avvicinamento alla vittoria arrivata due mesi dopo: lui e il paese in sintonia. Ma fu anche la prova di un cambiamento di pelle dentro l’associazione degli industriali. Un testimone di quel periodo, vicino a D’Amato, racconta che l’unica differenza tra Rutelli e Berlusconi in quella giornata fu che “noi ci fidammo di Berlusconi”. Venne fuori,

cioè in modo esplicito un elemento di costituzionale simpatia della piccola e media impresa – finalmente emersa alla ribalta grazie alla presidenza D’Amato – per un politico che dava più garanzie, che prometteva di rompere lo schema classico, a partire dalla riduzione delle imposte. Del resto D’Amato e Berlusconi qualche punto in comune ce l’hanno. Entrambi abilissimi a sfruttare l’occasione e il sentimento della base. Entrambi, un po’ sfacciati, simpatizzanti della popolarità, lontani per origine e per storia personale dall’establishment (condizione che per entrambi alla lunga si traduce in un deficit di attitudine a governare), ma capaci pure di concretizzare in rapporti di potere le opportunità colte per strada. Insomma c’erano tutte le condizioni, politiche e caratteriali, perché i due andassero d’accordo. Al centro del suo programma D’Amato mette il recupero della competitività per le imprese italiane e dalla politica vuole un atteggiamento liberale. “C’era l’idea di un tu per tu con il governo di centro destra che potesse evitare una concertazione troppo serrata, e che potesse produrre il condizionamento dell’esecutivo, con due priorità: più flessibilità sul lavoro, meno fisco”, dice Pierluigi Bersani, responsabile economico dei Ds ed ex-ministro dell’Industria. D’altra parte D’Amato è anche disposto a conferire un contributo d’azione. “Da questo punto di vista – racconta Maurizio Sacconi, sottosegretario al Lavoro – D’Amato è un uomo coraggioso. Crede nei cambiamenti e mette nel conto come i cambiamenti possano essere traumatici”. Per conseguire i suoi obiettivi D’Amato era disponibile a enfatizzare una sorta di collateralismo confindustriale rispetto al governo. Quando il nuovo esecutivo si insedia, la richiesta di Confindustria è esplicita: dateci la riforma delle pensioni o una prova di flessibilità sui licenziamenti. Le pensioni sono una cicatrice per il governo Berlusconi, lì defunto nella prima edizione del 1994. L’articolo 18, invece, sembra più abbordabile, non tocca i soldi, è una battaglia di principio. La richiesta

avanzata dalla Confindustria di intervenire sull’articolo 18, che diventa il segno di

tutto il quadriennio, è in parte il risultato di un incontro determinante. Quello tra Antonio D’Amato e Stefano Parisi, direttore generale della sua Confindustria. I due condividono un’attitudine riformista, l’idea di mercato del lavoro meno rigido e un sentimento di ostilità verso la componente conservatrice del sindacato, Cgil in primis. Parisi è un brillante curriculum combinato con una intelligenza svelta. Cresciuto alla scuola di Gianni De Michelis, ha sempre vissuto in un clima culturale che intende l’accordo di San Valentino del 14 febbraio 1984 – che mette fine alla scala mobile, rompendo l’unità sindacale e isolando la Cgil – come l’evento più importante e significativo del riformismo di Bettino Craxi in politica economica. San Valentino è il simbolo del primato di Craxi sulla sinistra italiana. A Milano dove fa il city manager, Parisi ha appena chiuso un accordo separato con Cisl e Uil e senza la Cgil. L’incontro tra Parisi e D’Amato è stato laborioso. Non si conoscono, sono stati presentati e messi in relazione da un amico comune, Enrico Cisnetto, giornalista influente e da sempre amico di D’Amato. Il neopresidente decide per Parisi, anche perché è interessato ad accedere alla rete di rapporti politici che il futuro direttore garantisce: il dg è di casa a Palazzo Chigi dal 1992, quando con Giuliano Amato fu nominato capo del dipartimento economico della Presidenza del Consiglio, dove pur con un paio di pause resta sotto cinque presidenti fino al primo anno del governo Prodi. Dal 1997, come city manager a Milano, tiene in piedi la giunta Albertini. Quando si incontrano nell’estate del 2000 a D’Amato piace. Dopo una trattativa non priva di un certo tratto oleografico – D’Amato che si consulta a Capri in barca con moglie e fratello, l’incontro su una terrazza romana (poteva mancare?) che guarda l’Altare della Patria, Berlusconi che dà malvolentieri l’assenso all’operazione, proprio mentre sta guardando una partita dell’Olanda agli europei – Parisi dice di sì.

La débâcle sull’articolo 18

L’articolo 18 è il terreno che individuano per ingaggiare gli avversari. Sarà una débâcle. Per una somma di ragioni. Perché le truppe sono scarse e sono pigre: tra gli imprenditori (la Fiat si sfila subito), in Parlamento (il primo no esplicito viene dalla destra sociale), nell’opinione pubblica che non crede all’utilità delle deroghe al 18 e comunque è ostile ai traumi. E per la decisiva reazione della Cgil con la clamorosa manifestazione del marzo 2002. Le basi per stimolare l’insorgenza sindacale, del resto, c’erano tutte: innanzitutto l’asse consacrato a Parma; poi l’ostentato, programmatico, anche sprezzante, no alla concertazione (“la concertazione è morta”, disse D’Amato); poi i nomi dei giocatori in campo, tra i quali non solo quello di Parisi evocava i fantasmi di San Valentino, ma anche quello di Maurizio Sacconi, socialista cattolico, puro riformismo, anche lui di scuola demichelisiana, al governo ufficialmente come sottosegretario al lavoro, ma nella nomenclatura politica vestito del rango di ministro. Su questo monte di elementi già percepiti con avversione dal mondo sindacale, si accocuzzola la deroga all’articolo 18. Tutto sembra fatto apposta per suscitare la reazione del sindacato e innescare Cofferati. “Eppure – dice Raffaele Bonanni, segretario nazionale della Cisl – l’articolo 18, secondo me c’entra fino a un certo punto. La sfortuna politica di Antonio D’Amato è stata di essere arrivato nel momento di massima tensione del cofferatismo. Cofferatismo, peraltro, che in quella fase ci sarebbe stato anche senza articolo 18 e forse anche senza Cofferati, ma con un altro al posto suo. Sull’articolo 18 si sono dette molte inesattezze. Non è vero che non fosse mai stato toccato. Noi avevamo scambiato deroghe all’articolo 18 in cambio di occupazione per tre volte negli ultimi vent’anni: nel 1982 si fece una sperimentazione, un provvedimento a tempo per i neoassunti; nel 1998 se ne

decise la non applicabilità per il lavoro interinale, nel 2001 – Amato presidente

del Consiglio – la deroga fu applicata alle assunzioni di lavoratori socialmente utili. Voglio dire che nella crisi della sinistra, era evidente che sarebbe scattata nella Cgil – indipendentemente da chi ne fosse il leader – l’istinto della cultura lavorista ortodossa”. (Del resto è vero che la proposta avanzata dal governo era sperimentale, cioè a tempo, e conservava comunque inalterata la facoltà per il giudice di decidere per il reintegro del lavoratore, senza servirsi della possibilità prevista dalla riforma di confermare il licenziamento in cambio di un indennizzo). Ma se anche la tesi di Bonanni fosse esatta, l’articolo 18 resterebbe un problema perché è un simbolo sì, ma di un mondo cambiato. La maggior parte delle imprese italiane non ne viene toccata, perché non si applica alle aziende sotto i 15 dipendenti, le grandi imprese non ne hanno mai avuto bisogno perché hanno sempre trattato con – e ottenuto dal – sindacato (Cgil in testa) le ristrutturazioni di personale. “Non era un tema di battaglia politica – dice Stefano Liebman, ordinario di Diritto del lavoro alla Bocconi – era un non problema. Come si disse subito non esisteva neppure un significativo numero di aziende impedite nella crescita a causa del 18. Anche la Confindustria naturalmente conosceva queste cifre: più del 90 per cento delle imprese sotto i 15 addetti. Fare dell’articolo 18 il simbolo della liberazione del mercato del lavoro da incrostazioni del passato era un errore. Anche perché tutto l’impianto della riforma sul mercato del lavoro, varata successivamente dal governo Berlusconi, mi sembra che andasse molto aldilà dell’articolo 18 in termini di modernità, di innovazione, anche di rottura con il passato”. Anche dentro l’associazione degli imprenditori l’adesione è tiepida, viene vissuta come una battaglia su un simbolo sbagliato, per giunta portatrice di handicap propagandistico: per contestarla bastavano cinque parole (no alla libertà di licenziare), per spiegarla ne servivano molte di più. E questo ha contato. La vicenda dell’articolo 18 diventa tragica, perché le polemiche che ne

seguono, gli scontri anche personali trai protagonisti, le provocazioni reciproche, l’eccesso di militanza da una parte e dall’altra, alimentano il clima vigliacco in cui si consuma l’assassinio di Marco Biagi, il giuslavorista che stava procedendo al completamento delle riforme del mercato del lavoro in Italia, cominciate negli anni del centro-sinistra. L’opinione pubblica ha la sensazione che senza lo scontro sull’articolo 18 non si sarebbe arrivati a quel punto di tensione. La storia della mancata riforma si chiude sostanzialmente nella primavera del 2002 e se la sperimentazione sul licenziamento senza giusta causa finisce su un binario morto lo si deve alla circostanza che persino dentro al governo (e alla sua maggioranza) non c’è praticamente nessuno disposto a sostenere più quella riforma o che tornando indietro sarebbe disposto a ripercorrere lo stesso cammino. A cominciare da Forza Italia, il partito del capo del governo. Luigi Casero, è il responsabile del dipartimento economico del partito di maggioranza relativa: “Per com’è andata non lo rifarei”, dice. “Si è fatta una battaglia ideologica che non avrebbe portato nulla alle imprese italiane. Quell’energia potevamo impiegarla altrove. Gli stessi industriali, alla fine, sono rimasti spiazzati”. Dice Enrico Letta: “La sconfitta sull’articolo 18 ricade sul governo più che sulla Confindustria, eppure dovendo giudicare il quadriennio D’Amato, tutto risulta condizionato da quella vicenda: il rapporto con le forze politiche, il rapporto con il sindacato. L’articolo 18 ha riproposto uno scontro ideologico che non era certo salutare per procedere lungo la strada delle pur necessarie riforme”. Le occasioni perdute  La conseguenza più grave della battaglia sull’articolo 18 va oltre la sconfitta politica. E’ come se tutte le energie profuse in quella vicenda avessero ridotto il profilo di Confindustria a quello di una semplice associazione sindacale del padronato in conflitto con la controparte, e incapace di ragionare su questioni più complesse. Questioni che stavano emergendo al momento

dell’elezione di D’Amato, a partire dalla crisi delle due istituzioni su cui si erano

retti gli equilibri economici italiani del Dopoguerra, Mediobanca e la Fiat. Negli ambienti più delusi da questi quattro anni si sostiene la seguente tesi: D’Amato doveva approfittare della crisi dell’establishment, doveva approfittare del fatto che stava venendo meno la dimensione dell’accordo salottiero, delle stanze chiuse (dove anzi erano in atto degli scontri feroci) per fare della Confindustria un luogo di sintesi, un luogo di costruzione di nuovi equilibri. Invece ha preferito la dimensione della guerra permanente. D’Amato era nelle condizioni ideali per giocare un simile ruolo anche in virtù della qualità delle sue sponde politiche: in asse con Berlusconi, e in ottimi rapporti con Massimo D’Alema e i suoi amici, che avevano guardato con simpatia la sua affermazione. Dice Casero: “Esisteva di sicuro la necessità di uscire da uno schema consociativo nei rapporti economici. Ma se in una fase di normalità ci si può accontentare di una Confindustria che si limiti alla gestione delle relazioni industriali – anche alla ricerca di un nuovo rapporto con il sindacato – in una situazione complessa come quella degli ultimi anni, forse sarebbe stata apprezzata una visione strategica più ampia e meno aggressiva nei rapporti politici, in quelli sindacali, in quelli con le banche”. Anche con le banche D’Amato attacca. Nella vicenda Mediobanca- Generali si schiera. Sceglie di stare dalla parte di Vincenzo Maranghi, contro Antonio Fazio e Cesare Geronzi, e non abbandona questa collocazione neppure successivamente. Il giornale della Confindustria cerca di tenere sotto pressione le banche, anche perché D’Amato chiede loro più attenzione, più risorse per le imprese. Potrebbe aver ragione su questo punto, ma molti gli rimproverano di aver scelto il metodo sbagliato, di essersi troppo esposto a favore di una delle due squadre: “Non sempre le posizioni del giornale della Confindustria – commenta Pierluigi Bersani – sono state lette dagli associati come nell’interesse del sistema d’impresa, ma più spesso come manovre per andarsi a collocare in una partita

politica. Da un punto di vista della gerarchia dei problemi, inoltre, non mi pare che la vicenda del potere bancario fosse un terreno davvero praticabile per questa Confindustria”. La campagna per la moralizzazione e la riforma del sistema del credito in Italia diventa – con l’esplosione del caso Parmalat, preparato da Cirio e Giacomelli e seguito da Finmatica – un’altra occasione per fare chiarezza su quello che non funziona nel capitalismo italiano; ma in piena tradizione confindustriale, non si avvia alcuna riflessione, alcun accenno di autocritica sulle responsabilità e sui difetti delle imprese italiane. “In Italia – prosegue Bersani – c’è una imprenditoria di massa che ha bisogno di una sua pedagogia, il cui luogo naturale è l’associazione. Ma anche in questo caso gli imprenditori hanno preferito non approfondire l’analisi sugli errori commessi. Il problema dell’adattamento del capitalismo famigliare italiano agli standard internazionali resta trascurato”. La questione pedagogica, dunque, è un capitolo aperto, con tutto quello che comporta: riflessioni sulla sottocapitalizzazione delle imprese italiane, sulle dimensioni ridotte, sul rapporto tra proprietà e management quando le dimensioni crescono (il caso Parmalat è esemplare), sulla propensione alla sfida internazionale. Questo è un punto interessante. E’ vero che le imprese italiane sono in ritardo rispetto ad altri paesi nella corsa ai nuovi mercati, ma è vero anche che hanno del futuro economico del paese una visione forse meno asfittica di quanto ce l’abbia una parte del ceto politico che le rappresenta. E sul fronte più strategico, cioè la Cina, la Confindustria rivendica un’azione pedagogica efficace, un’azione da corpo intermedio: le aziende sono state assistite, la struttura è stata in prima fila nel lavoro di sostegno agli imprenditori alla scoperta del nuovo mondo asiatico; a certificare l’interesse viene rafforzata la presenza del Sole 24 Ore che sta aprendo un ufficio di corrispondenza a Pechino. Ma resta la sensazione di una leadership mancata. Come se l’analisi sulla complessità della

sfida asiatica fosse stata tralasciata, lasciando il campo alle semplificazioni e ai

timori di un ceto politico istintivamente spaventato dall’Asia. “Sì – osserva Casero – la politica è sempre un po’ in ritardo, ma questo dipende anche dai messaggi che arrivano dal territorio, e qualche volta le associazioni locali degli imprenditori lanciano segnali di allarme”. Alla fine di febbraio, nel momento cruciale dello scontro per la successione a D’Amato, alla vigilia della decisiva assemblea di Assolombarda, il settimanale “Il Mondo” ha lanciato una bordata contro la gestione dell’imprenditore napoletano, pubblicando l’elenco dei mancati risultati. Non c’è stata la riforma delle pensioni, non c’è emersione del lavoro nero, è andata male sul fronte fiscale, con un aggravio di nove miliardi di euro l’anno a carico delle imprese.

L’attività di lobbying (fisco incluso)

Questo aggravio è materia politicamente calda. L’ammontare del saldo, di cui si parlotta a mezzavoce da qualche tempo, viene dai conteggi di Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario internazionale, già consigliere economico di Vincenzo Visco alle finanze, che tecnicamente li descrive così, voce per voce: “Con il decreto 209 del 2002 – quello che comporta un taglio alla Dit, la sostanziale indeducibilità della svalutazione sulle partecipazioni e un incremento della tassazione delle riserve delle società assicuratrici – si determina un aggravio per le imprese di circa 4 miliardi di euro. Altri 2,7 miliardi costituiscono il saldo algebrico a carico delle imprese che secondo Assonime, l’associazione fra le società italiane per azioni, arriva a partire dal 2004 con la sostituzione dell’Irpeg con l’Ires (calcolo generoso perchè il saldo potrebbe essere ben superiore ove si

tenga conto dell’inapplicabilità della participation exemption alle plusvalenze realizzate dalle società immobiliari e della contestuale indeducibilità del relativo disavanzo se le stesse partecipano, successivamente, a una fusione). Sempre a partire dal 1 gennaio 2004 c’è l’eliminazione totale della Dit e della deducibilità dei disavanzi di fusione, pari a 1,8 miliardi di euro di minori agevolazioni fiscali. Poi con il decreto 269 del 2003 c’è il taglio al rimborso dei crediti d’imposta sui dividendi: vale almeno un miliardo. Infine bisogna sottrarre 500 milioni di euro di sgravio Irap a vantaggio delle sole imprese minori. Ecco la somma: 4 + 2,7 + 1,8

+ 1 – 0,5 = 9 miliardi di euro. Aggiungo che in questo calcolo non è compreso il taglio al credito d’imposta per i neoassunti nel Mezzogiorno che era una misura parafiscale”. Cifre che al ministero dell’economia vengono spiegate come la conseguenza di precedenti circostanze. Giuseppe Vitaletti, professore di scienze delle finanze, consigliere economico del ministro Tremonti, dice: “Non parlerei di aggravio fiscale per le imprese. La storia è questa: nel 2002 ci fu un grande buco nel gettito Irpeg, superiore ai 10 miliardi di euro. Era il risultato delle eccessive agevolazioni del passato di cui si approfittò oltremisura quell’anno, perché nella parte finale della precedente legislatura era stato emanato un provvedimento che aveva fatto da moltiplicatore a tali agevolazioni, e perché le imprese temevano che l’Ires – che avrebbe introdotto a fini antielusivi la indeducibilità delle minusvalenze – potesse entrare in vigore già nel 2003. Dunque mi sembra che tenendo conto del 2002, il saldo per le imprese sia stato positivo: hanno preso più di quanto hanno lasciato con la parziale correzione intervenuta a partire dall’anno successivo”. Cioè – dice via XX settembre – lo Stato ha raddrizzato una stortura e si è ripreso il troppo che aveva dato. Vicenda politicamente gestibile dal ministero; più delicata per il sindacato delle imprese, perché quei benefici c’erano e non ci sono più.  “E’ l’effetto dell’abbraccio

berlusconiano  –  commenta  Enrico  Letta  –  Berlusconi  sapeva  che  la

Confindustria di D’Amato era con lui, lo appoggiava e questo ha creato dei problemi all’associazione. E’ il tipico schema Berlusconi: dovendo scegliere, sacrifica chi gli sta vicino”. Naturalmente viale dell’Astronomia non condivide, non parla volentieri di quelle cifre, ascrive alla bassa crescita economica il sacrificio che ha dovuto fare, ed elenca quelli che considera i suoi successi lobbistici. La riforma fiscale (con l’abbassamento dell’aliquota Irpeg, poi diventata Ires), la riforma del diritto societario, lo stato di avanzamento del testo unico ambientale e della riforma del diritto fallimentare, oltre naturalmente alla riforma del mercato del lavoro, l’unico risultato su cui sono tutti d’accordo: la Confindustria porta a casa la legge Biagi. Da un punto di vista dell’impatto immediato, la novità più visibile della legge è la liberalizzazione del collocamento. “Non solo – spiega Liebman – è una legge che scompone le fattispecie del lavoro dipendente, introducendo nuove formule. Piaccia o no l’assetto individuato, nessun paese europeo in questo momento ha un impianto così flessibile”. Le aspettative d’incidenza sull’occupazione sono buone. I critici, però, da una parte lamentano l’eccesso, la pesantezza delle norme attuative, e poi nel merito contestano l’abolizione dei co.co.co. (rapporti di collaborazione coordinata e continuativa) che erano stati uno strumento decisivo per la crescita dell’occupazione negli ultimi anni. La Confindustria viene accusata di avere ceduto su un punto essenziale. Sebbene esista una tesi minoritaria per cui sarebbe stato l’elastico dell’articolo 18, mollato a un certo punto, a consentire un accordo sulla riforma del mercato del lavoro, in realtà è stata proprio l’eliminazione della formula co.co.co. (sostituita dai cosiddetti lavori a progetto) il vero terreno di scambio su cui passa la legge Biagi. A viale dell’Astronomia la mettono così: noi imprenditori abbiamo chiesto più flessibilità – part-time, job-sharing, staff leasing (tutte formule dietro le quali si celano contratti limitati nel tempo) – in cambio

abbiamo offerto una correzione alla patologia dei co.co.co. che in effetti erano diventati un fenomeno di malcostume. Buffo, ma oggi come residuo del clima iper-ideologico di alcuni mesi fa, la Confindustria damatiana subisce l’argomento co.co.co. persino da sinistra, dove qualcuno – un po’ farisaicamente a dire la verità – le rimprovera una forma di incoerenza: ma come? cedere proprio su uno strumento che fa risparmiare gli imprenditori! A parte l’aspetto tecnico- finanziario della sostituzione dei co.co.co. con i lavoratori a progetto, assunti per una finalità circoscritta nel tempo, il nuovo strumento predisposto dalla legge può essere soggetto a un altro inconveniente: “Scontato che il lavoro a progetto è prova di buonafede da parte del legislatore che vuole tutelare gli abusi, rischia però di scatenare un infernale contenzioso”, dice Liebman. Del resto, su questo punto sarà interessante vedere quale strada sceglierà Montezemolo, il quale è stato in passato contrario all’eliminazione dei co.co.co. Come presidente della Fieg, la federazione italiana degli editori, alla fine di maggio del 2003 scrisse al ministro del lavoro Maroni per segnalargli la difficoltà che incontrerebbe il “comparto dell’informazione per quanto concerne la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative”, a causa delle 50.000 persone impiegate nel settore con varie forme di collaborazione.

La questione del consenso

Che cosa resta di questi quattro anni? Questo è l’unico punto sul quale i protagonisti e i testimoni concordano: resterà il modo in cui Antonio D’Amato è stato eletto. La corsa in salita di un giovane imprenditore del Mezzogiorno,

radicato  sul  mercato  e  disposto  all’internazionalizzazione,  che  sfida

l’establishment tradizionale, i rituali polverosi, si accomoda nella complicata e molto liturgica procedura di designazione del leader e batte il campione del sistema d’impresa italiano, Carlo Callieri, già vicepresidente di Confindustria per otto anni, uomo Fiat, presente in carne e ossa in un paio di passaggi chiave della storia economica recente (virile animatore della marcia dei 40.000 del 1980 con cui il management Fiat si riprende l’azienda; firmatario dell’accordo di politica dei redditi del luglio 1993), è stato la vera guida degli industriali già nel quadriennio precedente quando era il numero due di Fossa. D’Amato ne erode giorno per giorno il consenso, lo batte e porta alla ribalta del paese una classe imprenditoriale un po’ negletta, la piccola e media impresa la cui unica rappresentanza, storicamente, aveva vissuto nell’immaginario del paese sotto le sembianze di Renzo Montagnani nelle commedie cinematografiche a cavallo tra i settanta e gli ottanta. Batte insieme a lui i suoi sponsor, le grandi famiglie e la grande impresa, Agnelli, Pirelli, Lucchini, Merloni. “Fu sorprendente – ricorda Enrico Letta – e l’avere dato voce al sistema delle piccole e medie imprese e anche – per ragioni di identità – al sistema imprenditoriale del Mezzogiorno, resta un fatto”. Bonanni: “L’energia che sprigionò dalla vittoria di D’Amato fu tale che questo processo resterà nella memoria della Confindustria. La mia sensazione è che Montezemolo, che pure rappresenta un altro punto di equilibrio rispetto a D’Amato, terrà conto di questa eredità. Negli ultimi quindici anni le imprese italiane sono cambiate e Confindustria deve stare loro dietro per svolgere una funzione”. Ma così come è largamente condiviso il giudizio sulla irresistibile ascesa di D’Amato, è opinione comune che il capitale messo insieme in quei mesi – che andava a sommarsi a quello costituito dalla sua personale reputazione, lui che è stato confindustriale fin da ragazzino – sia stato sperperato. Il riformismo non ha prodotto riforme, l’energia si è trasformata in aggressività, la leadership ha

generato divisioni. Antonio D’Amato – ci racconta un testimone che l’ha conosciuto bene – ha pagato un prezzo alto a uno dei suoi principali difetti, l’incapacità di creare consenso. Dicono di lui che sia un uomo straordinariamente abile nel tenere la platea (anche su uno standard qualitativo alto), molto meno bravo nel convincerla. Questo difetto lo si è avvertito principalmente dentro alla Confindustria, e lo ha condotto gradualmente a una dimensione di leader ridotto, di capo a corto di truppe, fino al punto di perdere la battaglia per determinare la sua stessa successione: il che per un uomo che aveva conquistato quasi fisicamente l’associazione deve essere stato motivo di rimpianto. Lentamente è stato abbandonato da chi ne aveva sostenuto l’ascesa, a partire da Cesare Romiti, suo grande sponsor nel 2000, deluso dalla progressiva radicalizzazione della sua presidenza. La difficoltà a tenere la leadership si è vista anche fuori dall’associazione degli industriali. E’ stata notata nel rapporto con le categorie cugine. La polemica con i commercianti sull’euro, per esempio, scontentò tutti quelli che si aspettavano il rispetto di una identità culturale comune: non dobbiamo essere aggressivi con chi come noi vuole profitto, dobbiamo convincerli, dobbiamo trattare. “Ma – ci aiuta Bonanni – lì c’era in gioco una delicata questione di rappresentanza: la trasformazione del lavoro mette le associazioni del commercio e quelle dell’industria un po’ in conflitto, il commercio è invasivo e la Confindustria soffre la concorrenza degli interessi di rappresentanza”. La difficoltà nei rapporti cugini si è vista anche in altri casi: per esempio – accusano i critici – si è persa l’opportunità di ragionare sull’inserimento dentro al sistema confindustriale delle imprese di servizi, iscritte a Confservizi, a causa di una forma di pregiudizio verso quel settore e verso tutto quello che sapeva o che aveva avuto a che fare con l’economia pubblica. Un pregiudizio reso più robusto da una gelosa aspirazione monopolista riguardo alla gestione del

potere di rappresentanza. Emblematico il caso Enel. Appena insediato D’Amato

– nonostante in passato come presidente degli industriali napoletani avesse invitato Wind, con una significativa presenza a Napoli, a entrare nell’unione industriali – negò all’Enel l’ingresso in Confindustria, perché di proprietà pubblica e perché attiva in un mercato solo parzialmente liberalizzato. Per tutta risposta, Franco Tatò fece uscire anche Wind. L’ingresso dell’Enel in Confindustria risale a soli sei mesi fa. Circostanza che non ha comunque impedito a Paolo Scaroni, a.d. della società elettrica, di schierarsi contro D’Amato e per Montezemolo, in qualità di presidente degli industriali di Venezia, carica alla quale fu nominato quando era a capo della Pinkilgton, l’azienda leader mondiale del vetro che ha lì i suoi stabilimenti. A sottolineare un tratto di discontinuità su una questione così delicata come il rapporto con le altre associazioni d’impresa, l’altro giorno, invitato all’assemblea di Confcooperative, il presidente designato Montezemolo d’istinto ha sottolineato che i rapporti con le associazioni cugine si devono fare più stretti.

La struttura psicologica dell’outsider

Che parte ha avuto la componente umana? Che persona è Antonio D’Amato? Di sicuro è un carattere del Mezzogiorno. Lo è per chi lo difende, per chi lo descrive come un ragazzo napoletano di famiglia convinto che l’Italia possa diventare una società di stampo anglosassone, liberale, moderna e aperta. O per quei testimoni che ne sottolineano il pudore e che raccontano come, una volta entrato in rotta di collisione con Giulio Tremonti sull’eliminazione dei crediti d’imposta per i nuovi occupati nel Mezzogiorno, evita lo scontro forse anche per scrupolo meridionale,

perché non gli si dica: ecco, stai difendendo i tuoi propri interessi. (Con Tremonti lo scontro arrivò comunque: negli anni del governo di centrodestra i due hanno avuto rapporti quasi sempre difficili). Ma c’è una meridionalità del carattere più scomoda, che si manifesta in un altro modo: diffidenza, circospezione, predisposizione alla solitudine. Antonio D’Amato – racconta una persona che lo conosce bene – ha la struttura psicologica dell’outsider. Rileggere le 40 righe che scrive sul Sole 24 Ore il 25 gennaio dello scorso anno, all’indomani della morte di Giovanni Agnelli: non traspare alcuna simpatia per l’uomo, vi si scorge solo qualche concessione dettata dalla buona educazione; il resto è una misurata riflessione sul fatto che Agnelli rappresenta il passato e non perché non ci sarà più nessuno come lui – il che avrebbe coinciso con la vulgata conformista dell’estremo saluto – ma perché, questo il succo del suo ragionamento, oggi i mercati impongono un modo di fare impresa e di leggere il futuro necessariamente diversi rispetto al passato: “In questo senso la sua morte segna quasi emblematicamente la fine di un’epoca”, scrive. D’Amato di sicuro non è un ipocrita, non si nasconde, ma è privo di abilità tattica. Il mondo rappresentato da Agnelli non gli piace, non lo tenta, ne è considerato estraneo e lui a sua volta lo considera estraneo. Lo percepisce in termini di contrapposizione. Dall’altra parte compensa la diffidenza di indole con la vitalità, con il saper stare tra la gente come testimonia l’aneddotica mondana, e con una indiscussa, e anche vanitosa intelligenza. Si racconta che durante le riunioni del comitato scientifico di Confindustria fosse sempre capace di stare sul filo del discorso, qualunque fosse l’argomento discusso: la crisi latino-americana, l’etica dell’impresa, l’Iraq. E’ un lettore vorace, è un buon oratore, capace di parlare bene a braccio, è un conversatore instancabile. Qualcuno sostiene che sia stata la facilità di parola a suggestionare nei primi tempi quell’autentico fuoriclasse del ramo che è

Berlusconi. All’inizio quando si incontravano, era D’Amato a prendere la parola,

qualche volta a togliergliela addirittura – cosa che viene considerata un primato almeno in Italia – e a tenerla per parecchio tempo. Non è escluso che D’Amato sia arrivato a esercitare una forma di fascino su S.B., mano mano svaporato sotto i colpi dell’articolo 18. Ma il rapporto più difficile di questi quattro anni è stato quello con Sergio Cofferati. “E’ cominciato da subito – racconta Nunzia Penelope, che di Cofferati ha scritto una biografia, buona parte concentrata sui due anni dello scontro: 2001 e 2002 – Fu D’Amato ad aprire le ostilità, indicando nella sua prima uscita pubblica la Cgil come il nemico da sconfiggere. E lo fece alla presenza di Cofferati, il quale non gradì. Il fatto caratteriale fece la sua parte. Cofferati è un pigro in un certo senso, un uomo attivo suo malgrado, che ama la tranquillità, ma che insorge alle provocazioni. D’Amato, invece – lui stesso lo riconosce – è un timido che reagisce alla timidezza con l’aggressività. Ma mi sembra che sul piano personale sarebbe stato forse più disposto del suo avversario a coltivare almeno formalmente un rapporto personale. Cosa che Cofferati non volle. La loro incompatibilità non alleggerì il clima”. Cofferati e D’Amato hanno giocato per quasi due anni una partita a quel gioco un po’ senza senso che si chiama “chicken game”, il gioco del pollo, e che viene utilizzato dalla teoria dei giochi per spiegare i comportamenti estremi di due attori. Il gioco funziona così: due automobili lanciate una contro l’altra su una strada a una sola carreggiata, vince chi resiste di più, chi tiene duro fino all’ultimo, chi non ha paura e costringe l’altro a uscire di pista. Certe volte le due automobili si scontrano oppure escono entrambe di strada, e non vince nessuno. Cofferati per il momento non è diventato il leader della sinistra, è in corsa per la poltrona di sindaco di Bologna e se a giugno sconfiggerà Guazzaloca forse si guadagnerà il diritto a un’altra chance. D’Amato lascerà la presidenza della Confindustria il 26 di maggio. Del suo futuro non si sa nulla. Come tutti gli anni, quest’estate a Capri

lo vedrete risalire per la via Roma, la strada che porta dai due Golfi alla piazzetta, con il solito sguardo, terso ma nello stesso tempo un po’ malinconico.

Marco Ferrante