Il Foglio, 2 luglio 2022
A quarant’anni dalla prima edizione tornano da Einaudi, curati da Irene Babboni, i Diari (1927-44) di Antonio Delfini, singolare firmatario del ‘900 italiano. Stralunato flaneur, innamorato di un futuro che non vivrà, buffo, privilegiato, fermo nella unidimensione di borghese agrario, aristocratico e decadente. Nella alterna e postuma fortuna letteraria delfiniana, I Diari erano stati pubblicati per la prima volta nel 1982, a cura di Natalia Ginzburg e Giovanna Delfini, la figlia avuta negli anni ‘40 dalla bellissima Donatella Carena. Con una prefazione formidabile di Cesare Garboli.
Per Delfini comincia una stagione di risarcimento a cui non può assistere. Se ne parla molto. Alberto Arbasino – che ne è stato ammiratore precoce – quando escono i Diari, lo racconta in un ritratto. Ne emergono: una passione per Charlotte-Aglae, duchessa di Modena in una fase di sfiga per gli Este; un risentimento per una bellezza di Parma, Luisa Bormioli, dinastia vetraria, con cui ha avuto l’ultima relazione importante della vita; un talento divertito e partecipe di suggeritore di location per la trasposizione cinematografica della Bella di Lodi, con molte ambientazioni modenesi e un’attività di comparsa in alcune scene del film, “avventori eleganti in blu, con cravatta estiva”.
Nel 1997 Garboli fa un’altra prefazione a una raccolta Garzanti. Occhio – dice, un po’ geloso, agli altri che ne scrivono – ne state facendo un personaggio. Circostanza però che deve molto al suo contributo. Dopo la morte di Garboli, la prefazione al successivo volume einaudiano, di racconti e altri frammenti delfiniani, tocca a Gianni Celati, il quale cerca di demolire la prima prefazione di Garboli ai Diari, invano. Comincia a manifestarsi questa curiosa malìa che Delfini esercita sugli scrittori. (In questa prefazione ai Diari, Marco Belpoliti non entra in competizione con l’autore né con i precedenti prefatori).
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Nella nascita del personaggio c’è un punto di partenza. L’inclassificabilità anche antropologica. Da vivo, tutti lo trattano come un semi-dilettante eccentrico, poco portato per il lavoro e piuttosto ricco, la qualcosa ultima è vera, ma come al solito quando letteratura e giornalismo si occupano di soldi, meno vera dell’apparenza.
Nel 1935 la fortuna della famiglia si è assottigliata. Non sappiamo quanto grande fosse prima, nello stato di grazia ottocentesco. Restano circa 180 ettari, una grande casa a Modena, una in campagna, altri immobili in provincia e dei locali per uffici. Valore complessivo, secondo quanto Delfini scrive nel 1956, tra i due e i tre milioni di lire dell’epoca, cioè tra i 2,3 e i 3,5 milioni di euro al valore odierno. Dunque, mentre si affaccia al mondo letterario, è accompagnato, e lo resterà, da un’aura di ricco molto ricco che non corrisponde più alla realtà. Punta a un colpo di fortuna, vagheggia una quarantina di milioni di lire per restituire splendore a Disvetro, la casa di campagna, o quelli della signorina Sofia Piacentini, la quale ”vuole sposarsi, ha più di cento milioni”. Però: ”Non giuoca a bridge, né a pinnacolo ecc. In fondo è peccato che sia tanto ricca” (1941).
Nei Diari la ricchezza declinante è molto presente, con il rimpianto del maschio orfano di padre, i temuti giudizi di sua madre, la sorella mansueta, le case in bilico, i costi di mantenimento, i crescenti debiti e le fatiche dell’amministrazione, nei vent’anni tra le due guerre, scanditi anche dalla relazione tra il giovane Antonio e il fascismo. Originaria fascinazione, progressivo disincanto e infine inimicizia.
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Un altro aspetto interessante dell’altalena su cui oscilla il caso Delfini sono le parentele. Sicuramente Dino Campana e Leopardi. Lo Zibaldone è un riferimento dei Diari. Poi Stendhal che ama, Nerval, Baudelaire e Rimbaud. Garboli tira fuori anche una relazione con Kafka, Celati alza la posta con Kiergaard. Potremmo accontentarci di parentele più prossime e affettuose, per esempio, se fosse stato coetaneo di Arbasino o Paolo Conte: del resto, l’asse Asti-Modena è inferiore ai 250 km, e in mezzo ci sono Stradella, Casteggio, Voghera, tristi anche loro. Per quasi tutti i delfiniani c’è in Delfini – molto nei Diari – un inconsapevole sottofondo proustiano, anche se nell’estate del 1932 liquida Proust come scrittore mondano e nel gennaio del 1937 dichiara di non averlo ancora letto (”Libri che si dovrebbe ma non si possono leggere – Tutta l’opera di Proust”). Meno complesso, colto e strutturato, condivide lo struggimento nella ricostruzione dell’infanzia svanita, nella persistenza della città madre (Modena), ma anche nelle atmosfere di parenti superstiti, tappezzerie a fiorami, vacanze estive, stabilimenti e signore ai bagni, e molta mamma – pur in rapporti alquanto tesi – Capri con la mamma, e il caffé Morgano. Ma soprattutto Viareggio, Camaiore e il Forte. Che non è il Forte di Malaparte e di Virginia Agnelli. Assomiglia più a Marta Vio, ai laboriosi lombardi, padani, provinciali, ricchi e anonimi. Molte passeggiate famigliari sul lungomare, e di sera le macchine sportive… Ovunque, chiacchiere domestiche (e sulle domestiche), commenti e giudizi. Questioni in sospeso, antipatie, famiglie conosciute tanti anni fa, un nonno illegittimo. Poi all’improvviso dei colpi di genio, in un aggettivo. “Ha una vocina semplice e collegianda”. Collegianda.
C’è una sensualità, costantemente esibita, necessità di generare stupore e conferme, nel racconto di una provincia provata nella virtù. Le due figlie avviate alla prostituzione dalla segretaria politica del Fascio femminile della città; la signora con leggera peluria sul viso ogni sera sommessamente disturbata di dover andare al letto col marito, molto villoso, e soprattutto colonnello dei carabinieri; l’uomo che non sa nascondere le erezioni ai balli estivi e palpeggia le ragazze di buona educazione.
”Ho una gran voglia di andare a ragazze stasera” (1930). Nelle fotografie appare un giovane alto, lineamenti e tagli eleganti, già con la precoce bellezza degli stempiati. Una bellezza cui lui stesso accenna, ma che non farà di lui un seduttore invincibile. Molte storie dei Diari sono velleitarie e inconcludenti, desiderose di amore romantico e di amore carnale.
Una prelude a uno dei rari momenti di quiete della sua vita. L’amore con Donatella Carena, figlia del pittore. La conosce nel 1936. Lei ha poco più di 15 anni e si innamora di lui. Tutto è platonico, fino al 1940. Delfini viene a sapere da Tommaso Landolfi che la Carena sta per sposarsi con Piero Bigongiari, “poetino ermetico-surrealista”, commenta. Delfini racconta di una telefonata a Donatella per farla ravvedere. Lei va a letto e gli passa la mamma. Il matrimonio si celebra.
Il sequel è fuori dai Diari. Come racconta Giovanna Delfini, in una conversazione al telefono molto allegra e generosa, Donatella e Antonio si rivedono in una circostanza alquanto romantica. Bigongiari dà una festa per la liberazione di Firenze, agosto 1944. Dice alla moglie che ha invitato anche Delfini, lei dice preferirei non venisse, perché sono stata innamorata di lui. Bigongiari dice che non fa niente. Quando la porta si apre, si accorgono che l’amore non è mai finito. Sulla terrazza gli invitati assistono ai fuochi d’artificio. Nel buio, Delfini le prende la mano. Poche settimane dopo vanno a vivere insieme. Giovanna nasce nel 1946. Nel 1948 si separano. Giovanna vedrà Delfini solo quattro o cinque volte.
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Nei Diari c’è poco di due eventi decisivi, la morte del padre e la vendita della casa di via Canalgrande, ai tempi corso Umberto. Della casa perduta c’è qualche nota: “È improbabile che riesca a seguire un ordine, dato il disordine che impera in quelle note, nelle mie carte in generale, nei miei pensieri dopo quel giorno che per l’ultima volta dormii nella mia casa di Modena. Estate infausta quella del 1935”. Una frase più significativa risale all’anno successivo. “Non avrei mai creduto che tutto il mio amore per le donne, o voglia di passione, di amore unico, si trasportasse nella nostalgia e nel dolore inestinguibile per la perdita di una casa” (18 dicembre 1936). Che cosa sia questa casa il lettore non lo sa dai Diari, ma da quella che diventerà la famosa prefazione al Ricordo della Basca, fondamento del mito letterario di Delfini, un testo di circa vent’anni dopo. Invecchiato, in mezzo al sognante ingranaggio degli anni Cinquanta, si guarda indietro per spiegare che cosa abbia tenuto insieme tutti i racconti scritti negli anni ‘30 e per riflettere sulla sua vita di letterato anomalo e di ex ricco. È una casa in un palazzo settecentesco, 50 vani, ereditata da un bisnonno. La madre precocemente vedova vi si trasferirà con i due bambini, quando Antonio ha due anni. Foto di quei tempi: i bambini su un panchetto, Bianca Delfini in piedi, bella e discreta, vestito bianco di cotone pesante o di lino; sulla vita, grandi fiori ricamati. In casa ci sono cinque saloni che si rincorrono, nei quali, in virtù di fasi, capricci e paturnie, il giovane erede maschio fissa la base delle sue operazioni. Ne usciranno nel 1935, prezzo di (s)svendita 275.000 lire (attualizzate, circa 320.000 euro di oggi). I mobili vengono trasferiti nella casa in campagna, base dell’azienda agricola di famiglia, a Disvetro, dove si accatasteranno insieme a quelli provenienti dalla casa dei nonni sulla piazza Roma, dove Antonio era nato.
Sulle case vendute ci sarebbe molto da dire e si dovrebbe scrivere un’antologia delle case che non ci sono più; nella letteratura borghese sostituiscono i regni perduti e sono il principio di esili, dolore e perdita di identità. Per Delfini la casa è se stesso, perché la rappresentazione del sé – soprattutto in provincia – corrisponde completamente al sé.
Si trasferisce con madre e sorella tra Firenze e Viareggio continuando a dilapidare quello che resta. Alberto Vigevani racconta che ha convertito il contante in lingotti d’oro. Perde a carte, nei Diari a volte annota le cifre. Dopo la guerra abbandonerà anche la casa di Disvetro, dove i tedeschi hanno bivaccato, danneggiandola. Non la venderà. Ci penserà anni dopo Giovanna. Oggi è di una farmacista, il Fai l’ha aiutata dopo il terremoto. La casa di Modena invece ospita dimessamente il tribunale della città, tipo romanzi russi novecenteschi scanditi dalla distruzione della proprietà.
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Perché Antonio Delfini piace così tanto agli scrittori? Perché è bravo, poetico, spontaneo, ed emotivo? Sì, ma non basta. C’è un punto più profondo. Piace perché come alcuni altri autori dagli esiti laterali, Delfini se ne sta appollaiato sulle spalle di quelli che decidono di fare della scrittura una professione. Delfini è un monito, un avvertimento, una minaccia, una possibilità. È un punto di partenza, la massa informe della vita, le suggestioni, le emozioni che fondano il romanzo di ciascuna esistenza, che qualcuno lo scriva o no, e che esiste autonomamente rispetto alla sua forma letteraria.
Delfini è un accumulatore di frammenti, programmatici in un certo senso, come nel caso dei Diari. La sua progettualità non produrrà niente di organizzato, a parte una minuziosa e poetica ricostruzione di Modena, nè piccoli né grandi mondi immaginari, nessuna Brideshead, né storie simboliche, o metafore, né personaggi formati, conclusi – solo tracce, Gina Montuori, o la Basca, o Giulio Antini, nome prediletto tra le invenzioni letterarie italiane, e una persistente, avvolgente atmosfera.
Al cospetto di Delfini, si percepisce l’incongruenza e anche l’inefficienza del faticoso atto di scrivere, compensato però dalla felicità creativa – horribile dictu – e reputazionale, quest’ultima il tipo di felicità che forse più gli interessava: “S’io divento un grand’uomo, un bel giorno vorrò sparire, tanto che il mondo mi crederà morto (e io invece sarò lontano sopra una bell’isola vicina all’Australia, e ricco sfondato). È certo che salteran fuori critici e letterati ed editori per la pubblicazione de’ miei inediti”.
Il talento non utilizzato, il tempo lasciato correre, gli appunti dissipati, le idee buone, le bozze, i progetti, i soggetti di racconti, romanzi, anche film, affiorano ovunque e indeterminatamente nelle sue pagine. Dunque rappresenta per chi lo legge, la storia documentata di un progetto letterario e d’altro canto la minaccia del fallimento, dell’inutilità. Prepararsi e non eseguire. Questo è il segreto del suo fascino.
Garboli prese i Diari e li piegò in un bellissimo saggio introduttivo, che con essi quasi gareggiava. In uno di quei momenti di magica civetteria in cui rivelava un sé stesso dalle parvenze delicate, Garboli dichiara di non essere un artista – cosa non vera – e prova a spiegare perché Delfini è importante. Perché è un uomo pieno di gioia. Una delle ultime immagini di Delfini è in una scena della Bella di Lodi. È l’estate del 1962, insieme ad Arbasino, comparse di avventori eleganti in blu, cravatta estiva, sono a Modena, seduti al ristorante da Oreste, sulla piazza Roma. Il tavolino è alle spalle di quello di Stefania Sandrelli e di Angel Aranda. Lui e Arbasino conversano, sembra contento. Come compimento psicologico, letterario e sociale, sarebbe bello se parlassero della Bormioli. Non gli serve più niente. Morirà tra pochi mesi, a febbraio del 1963.
Per tanti che lo hanno amato e lo amano, Delfini è uno specchio, e può rompersi. Per chi invece non ha bisogno di specchi, o li ha già rotti, ha ragione Marco Belpoliti nella sua bella prefazione: aprite i Diari a caso. Chi già conosce Delfini invidia quelli che devono ancora scoprirlo.
Marco Ferrante