Pubblicato in un libro collettivo per i 40 anni del Festival della Valle d’Itria, la rassegna belcantistica che si tiene a Martina Franca. Il titolo è di Mario Desiati che del libro è stato curatore. I ricordi sono i miei (m.f.).

Luglio 2014

Ho trascorso alcune delle mie estati più felici intorno al Festival della Valle d’Itria. È stato - di sponda se si può dire così - un pezzo della mia tarda infanzia e adolescenza, e direttamente un pezzo della mia giovinezza. Non ci sono più tornato per tanto tempo, anche a causa delle piccole manie romantiche che sopraggiungono con gli anni - e ne ho quasi cinquanta: l’età perfetta, il tempo che smussa, la distanza, un certo rispetto per le cotte estive, per gli amici e gli affetti di allora, e per quando tutto sembrava possibile. Questa disposizione generale ha un difetto. Travolge molte cose, le quali cose non sempre ritornano. Il Festival, invece, ogni tanto si ripresenta. Di sorpresa di solito. Quando passa in tv “Another Country”, ispirato all’avventurosa storia di Guy Burgess, spia inglese al servizio dell’Urss, in un paio di scene spunta la faccia sassone di un bel ragazzo dal ciuffo biondo. È uno dei ragazzi del Trinity Boys Choir. Nel film il Choir canta un inno. Il ragazzo, giovane e anonimo corista, era passato da Martina per la prima volta nel 1981 per il “Cappello di paglia di Firenze”. Era inconfondibile (e invidiabile) per ciuffo e distinzione, quando insieme ai suoi colleghi camminava per le strade della nostra città. Per questa fortuita combinazione - e del tutto all’oscuro di mister ciuffo biondo - ai miei occhi “Another Country” ha una stretta parentela con il Festival della Valle d’Itria.Qualche mese fa, seduto a tavola, la vicina alla mia sinistra ha raccontato una storia. Alcune sere prima era stata rimproverata - lei poco ferrata in materia musicale - da una sua commensale per aver sbagliato il nome di un’opera. La sua casuale esaminatrice era Raina Kabaivanska. Evocativo. Raina Kabaiwanska è un nome di quando ero ragazzino, troppo forte e caratteristico per dimenticarlo. L’avevo vista una volta nella hall dell’hotel dell’Erba, che a quel tempo, mi sembrava ancora esotica e moderna, con una scaletta che costeggiava il perimetro liberty della ex villa Mongelli - lambita dall’edificio appena costruito che ospitava l’albergo - e che scendeva verso una piscina semi-olimpionica circondata dai pini. Nella stessa hall un’altra volta avevo visto Nino Rota. Era una mattina di luglio direi, una di quelle mattine dopo un giorno di pioggia. Sulla Murgia c’era un’aria freschetta e un sole settembrino. Avevo accompagnato mio padre per un appuntamento con qualcuno del Festival e fummo presentati a Rota che aveva un maglione sulle spalle, già perfettamente a suo agio con la previdente tradizione murgese del maglioncino estivo - perché non si sa mai. Il Festival dei primi anni me lo ricordo così. Attraverso papà che ne era incuriosito e con gli occhi di quella mitica età che sta tra i dieci e i quattordici anni. Ma quei primi anni avevano un’aria mitica non solo a causa della mia giovane età. Le spalle della rassegna erano coperte da Paolo Grassi, nato a Milano, ma martinese di origine. E ne era animatore Alessandro Caroli, detto Sandro o Sandrino. Bell’uomo, alto, fascinoso e di famiglia politicamente preminente. Nella logica della provincia, era vagamente “a parte” per aver trascorso molti anni fuori e per avere un’altra vita altrove. Anch’essa molto esotica a giudicare dalla bellezza di sua figlia. Una di quelle tipiche bellezze che segnano l’adolescenza degli altri: una delle tante cugine che vivono fuori e tornano d’estate a mettere subbuglio nell’ordine del Mezzogiorno. Almeno, così era allora.
Così, ogni tanto anche dalla sponda festivaliera spuntavano aneddoti e brani romanzeschi che si sommavano al catalogo delle tante vite cittadine che d’estate si affacciavano sulla nostra. Amici d’infanzia dei miei genitori (i compagni di scuola di papà che erano andati a vivere fuori dalla Puglia, Cicì Aquaro, Zino Caroli, Carlo Semerari, Sandro Viola, Giorgio Montechiaro, la cui moglie – inciso - era nata per qualche misteriosa e casuale circostanza, per noi parecchio impressionante, in un’isolata casa sul mare dalle parti di Forcatella, tra Torre Canne e Savelletri, dove adesso si mangiano i ricci). Oppure saltuari frequentatori della Murgia di questa o di un’altra generazione. Per noi fratelli era sempre suggestivo l’arrivo di Giovanna Bemporad a cena. Aveva un certo impatto su di noi, per buone ragioni. Poetessa, moglie di un ex ministro, amica di Pasolini e donna dalla vita personale misteriosa. Era sempre vestita di nero e vanamente disponibile nei confronti dell’educazione scolastica di noi bambini, compresa - incredibile a dirsi - quella della mia amata sorella Federica.

La memoria successiva che ho del Festival è più diretta. Nei primi anni ’80 - uscito di scena Sandro Caroli e, due anni dopo, morto Paolo Grassi - il Festival cominciò a camminare sulle sue gambe. Il gruppo dirigente era formato da Franco Punzi, Lorenzo D’Arcangelo e Rodolfo Celletti. E con loro, un gruppo di giovani tra cui spiccava Rino Carrieri. Fu per l’amicizia con lui che mia sorella, io e un gruppetto di altri amici cominciammo ad avvicinarci al Festival e dare una mano come giovani volontari. Eravamo a cavallo dei diciotto anni e fu molto divertente. Eravamo ragazzini a disposizione dell’organizzazione. Tra i nostri compiti: sistemare i palchi degli eventi minori, aiutare l’accoglienza e rafforzare il servizio hostess, qualche volta prendere gli ospiti all’aeroporto di Bari, occuparci della vendita e distribuzione dei libri di sala. Rino era il nostro punto di riferimento, generoso, didattico, affettuoso, aneddotico. Ci illustrava le storie musicali con un’irrituale efficacia divulgativa, una specie di spirito da racconto calcistico. Sono andato a trovarlo, prima di mettermi a scrivere, per rinfrescare la memoria. Ho passato un paio d’ore nella sede della Fondazione Paolo Grassi e ho dato una scorsa ai vecchi libri di sala. Sono riemersi nomi dimenticati. Quelli remoti degli artisti, Grace Bumbry nerissima “Norma” nel 1977. Quell’anno era stata la titolare del Bacco dei Borboni, idea di mio padre, collaterale al Festival: il personaggio più popolare di ogni edizione riceveva in regalo una cantinetta di cento bottiglie di vino bianco con il proprio nome su un’etichetta a base di cornici e paraste barocche. Altri nomi di artisti ripescati dai libri di sala: Dano Raffanti, Daniela Dessy, che poi con gli anni diventò Dessì (innocua debolezza ottocentesca da cantante lirica). Poi i maestri e i registi, Alberto Zedda, Bruno Campanella, Lamberto Puggelli. Dalle foto dei divi di un tempo così sorprendentemente pre-internet viene fuori una generale incongruità, tipica delle immagini segnaletiche. Simone Alaimo, che era un omone alla Adriano Pappalardo, è ritratto in un vestito chiaro parecchio borghese; e Giuseppina Carutti, assistente di Puggelli, molto milanese e svelta svelta, è raffigurata sempre - anno dopo anno - con la stessa foto da ragazza, in costume da bagno.

Con Puggelli e la Carutti, c’erano i ragazzi che studiavano teatro e che ci snobbavano alquanto, con nostra somma sofferenza: soprattutto una bellissima e algida milanese con cui avevamo stabilito un goffo codice basato sul non salutarsi. In compenso, però, eravamo diventati amici con Elisabeth de’ Grassi, che era venuta a lavorare con Rino, e che apparteneva per via famigliare alla comunità dei pionieri del turismo pugliese: Cisternino, la valle d’Itria incontaminata, il rispetto del primitivismo locale (molto prima che tutto questo fosse distrutto dalle ristrutturazioni orientaliste delle masserie e dei palazzetti salentini, dai mobili balinesi, dall’abuso della pietra a vista e dall’invenzione vacanziera della Puglia magica, tarante, pizziche, eccetera eccetera). Il centro delle operazioni era Palazzo Ducale, le due magnifiche stanze della foresteria e l’atrio, dove all’inizio di luglio si cominciava ad allestire il palco nell’andirivieni molto fusionista degli impiegati del municipio, dello staff di Punto Radio, dei pazienti dell’ambulatorio comunale, del custode del festival - quest’ultimo molto amico nostro. Clima festoso, animato, spontaneista. Le ragazze della segreteria artistica (si chiamava così). Franco Di Giuseppe comandante in capo della redazione del libro di sala, simpaticissimo e burbero. I fratelli D’Arcangelo: la pipa di Roberto, l’ingresso allegro e scapigliato di Pasquale, Dino che arrivava da Roma a Festival già cominciato e che adesso non c’è più. Tutto il via vai delle relazioni giornalistiche, all’inizio molto artigianale e poi sempre più ufficio stampa professionalizzato. La vita operativa era nell’atrio. Clangore di tubi Innocenti e fisica allegria dei macchinisti - protagonisti di un traffico costante tra il palco e il Caffè Ducale, all’epoca primo (e unico) bar martinese a servire al banco stuzzichini per l’aperitivo. Aldilà del palco, dalla parte opposta dell’atrio c’era, infine, il mondo misterioso della sartoria, dove vigeva un regime di assoluto matriarcato governato da Giuseppina Punzi. Non ricordo di averci mai messo piede, zona off-limits. Il pomeriggio tutto si fermava. Finita la controra, la macchina festivaliera ripartiva. I primi a rispuntare erano quelli del gruppo Carutti e poi via via musicisti e cantanti. Le prove erano la cosa più affascinante e per noi ragazzi, ospiti della lirica, del tutto dualistica. Il punto è che la vita locale scorreva parallela a quella del festival. Per due mesi sospendevamo i rapporti con i nostri amici e con la nostra vita abituale, ma quella vita continuava senza di noi. E la musica che era la causa originaria della nostra separazione, era anche una misura simbolica della distanza tra i due mondi. L’anno de “Il cappello di paglia di Firenze” (1981), tra le hit estive c’erano “Bette Davis Eyes” e “Chi fermerà la musica”. L’anno della “Semiramide” (1986), c’erano “Live to tell”, “Notorius” e “Bello e impossibile”. L’equilibrio tra i due mondi era molto delicato. Ed era reso più precario dal fatto che mio cugino Michele - profondamente nel rock - nutriva la nostra traballante cultura musicale con altre pietanze: molto progressive (Genesis, Jetro Tull e King Crimson), psichedelia e glam a cavallo tra i ’60 e i ’70. Il che rendeva la costruzione di un’identità musicale un continuo terreno di battaglia, soprattutto per me che mi divertivo nello stesso modo a sentir parlare di progressive da Michele e di Belcanto da Rino, delle storie avventurose di Lou Reed e Nico, e di quelle meno cruente di Tommaso Traetta alla corte di Parma. Ma era quella la parte più divertente della formazione autodidattica. Nonostante la pazienza e la bravura di narratore di Rino - che non ha colpe, ovviamente, per quanto segue - non sono mai diventato un appassionato di lirica. Però non ho mai più provato l’emozione di quelle prove nell’atrio del Palazzo Ducale. Per le generali e per le prime, durante lo spettacolo noi ragazzi salivamo al piano di sopra: o nelle stanze del comune, affacciati a guardare le scene da quei palchetti naturali che erano i vani delle finestre settecentesche, oppure qualche volta dall’ala Carucci, una maestosa manica dal bellissimo portale di pietra a cui si accede dalla scalinata principale del palazzo. Lì invitavamo qualche amico a guardare lo spettacolo, contrabbandando il nostro piccolo privilegio di insider. Tra le buone usanze della vita murgese - come sembrava aver intuito Rota quel giorno in albergo - c’era il maglioncino estivo per quando la sera l’aria si raffredda. Per quanto il barocco potrebbe far pensare il contrario, la nostra è una Puglia distillata ed essenziale. L’arietta mutevole, la brezza improvvisa, le sere d’estate appena pungenti per le strade bianche sono costitutive del nostro mondo ed estremamente piacevoli. E in quelle serate a Palazzo Ducale, libretto d’opera alla mano, tutti perfezionavano la magìa del maglioncino e degli scialli estivi. Con precisione non saprei dire quanto tempo durò la nostra militanza festivaliera. Tre o quattro anni, direi. L’ultima cosa che ricordo con gli occhi di allora è l’atrio con l’allestimento dell’Ifigenia in Tauride (non in Aulide - meraviglia delle omonimie classiche! Come la superiorità di Aiace Telamonio, l’unico eroe che non chiede aiuto agli dei, su Aiace Oileo…). C’era una scala circolare al centro della scena, sotto le finestre dell’ala Carucci. È una perfetta istantanea della giovinezza. Poi il nostro gruppetto si sciolse, ce ne andammo, lasciammo la Puglia e la nostra carriera teatrale finì lì.

di Marco Ferrante