Pezzi lunghi – Capri

Il Riformista, 29 agosto 2009

A Capri il primo avviso di una stagione difficile è arrivato a luglio sibillino, del resto da Cuma. A metà del mese, dopo uno sciopero dei dipendenti del depuratore cumano, c’è un versamento di 400.000 metri cubi di liquami non depurati. Nel golfo di Napoli arriva schiuma e liquidi scuri. Per qualche giorno si diffonde l’allarme di piccole bolle sottopelle incubatrici di un’infezione da batteri coliformi. Poi l’allarme rientra, le associazioni del turismo minimizzano assai, le autorità politiche regionali pure. Sull’isola se ne parla per qualche giorno, soprattutto sulle spiaggette di Marina Piccola, quelle dei bambini, i più esposti, da Maria, i Bagni Internazionali, Gioia; intanto le correnti fanno il loro lavoro e la situazione si aggiusta. Il 28 luglio l’estate prende un’altra piega. Nel pomeriggio, il signor Jean Laurent Simon, francese, comandante del motoryacht Carrera, battente bandiera inglese, esce dal porto di Capri e fa rotta verso Ischia. Com’è giusto che accada nel Golfo di Napoli in piena estate, Simon mette – si dice – il pilota automatico e a cinque miglia dal porto travolge da poppa il gozzo Stella Maris from Procida, otto persone a bordo. Lo trancia in due. Uno dei passagegri del gozzo, don Luigi Saccone, sacerdote, viene maciullato dall’elica. Per dire la verità, questo genere di incidenti è accolto sempre con un fatalismo che supera l’orrore dello smembramento di un corpo umano. Il rispetto delle regole e l’educazione di chi va per mare è molto più approssimativa di quanto si immagini. E stando a una generica consapevolezza collettiva, è scritto che prima o poi un fattaccio succederà. Il 13 agosto, alle ore 21.38 arriva il black out. Salta un isolatore della centrale elettrica a Marina Grande. L’isola resta senza luce per cinque ore. Il blackout tocca il cuore del sistema di potere isolano, La Sippic, l’azienda elettrica, che rappresenta la monocultura industriale dell’isola. La Sippic genera una grande ricchezza per i suoi azionisti, ha un potere clientelare a causa dei dipendenti
diretti e dei fornitori, ha una lobby che la protegge, ma ha anche molti avversari. A partire da coloro i quali caldeggiano l’allacciamento della rete caprese alla rete di Terna attraverso un cavo sottomarino. La notte senza luce – a parte la seccatura per chi avrebbe voluto vedere “Colazione da Tiffany” in onda su Raitre o il cambiamento di programma per chi aveva ospiti a cena e ha improvvisato un tourbillon di fiaccole sulle terrazze con l’occhio agitato delle padrone di casa, fisso sulla scorta di ghiaccio che si riduce a vista come in “Mosquito Coast” – causa danni diretti per il turismo. Roberto Russo, imprenditore e consigliere comunale, dice che il blackout ha determinato mancati introiti per almeno tre milioni di euro. I ristoratori di locali notturni danno le loro cifre. Il proprietario della Sippic, Ettore Di Nardo, viene contestato. Scrive Il Mattino: «Le accese proteste, il clima teso e alcuni episodi di intolleranza che si sono verificati in questi ultimi giorni non saranno per facilmente dimenticati. Episodi che hanno costretto il presidente dell’azienda elettrica a munirsi di una scorta personale per evitare sgradite e violente contestazioni». Sic transit gloria Sippic. Passano cinque giorni e l’agitazione post-blackout si carica di un fatto nuovo. Non tutte le abitazioni di Capri e Anacapri sono collegate alla rete fognaria. Alcune hanno pozzi neri da spurgare. Una autobotte della ditta Ecology, con sede a Castellammare, dopo aver raccolto 5.000 litri nel suo contenitore (tariffa 1.600 euro a carico), effettua lo sversamento su un tratto di costa sopra la Grotta Azzurra. Nella lunga estate calda si introduce un elemento ulteriore, il complotto. Qualcuno ritiene che la Castellammarese Ecology abbia voluto far scoppiare il caso per fare un danno all’immagine di Capri o per avvisare i poteri economici capresi che quelli di Castellammare vogliono più spazio. Un po’ c’è il riflesso della rivalità tra Capri e Castellammare, che stanno una di fronte all’altra e si detestano, un po’ c’è il timore reale di infiltrazioni camorristiche che da quindici-vent’anni minacciano l’isola. Forse, invece, è solo una storia
di sciatteria e di tempi stretti. Sbrigarsi: prima si sversa, dovunque capiti, e prima si fa un altro carico da 1.600 euro. Intanto la discussione sul complotto è partita. E a mediatizzare ulteriormente la crisi d’immagine caprese, il 20 agosto ci pensa non uno di Castellammare, ma un puro autoctono. Si chiama Carlo De Martino, ha settantasei anni, è il titolare dello stabilimento Bagni di Tiberio. A fine giornata, carica le bottiglie di vetro su un gozzetto, le rompe in barca e butta i vetri in mare. Quando viene arrestato dai Carabinieri dice quello che pensa e che è la verità: per tutta la vita ha rotto e scaricato i vetri in mare, si frantumano e piacciono ai bambini quando la corrente li riporta sulle spiaggette ciotolose. E’ vero, il vetro non è un liquame non depurato, ma De Martino ha avuto il torto dell’intempestività. E’ il prologo al colpo più duro. Il 25 alcuni battellieri della grotta Azzurra denunciano schiuma biancastra nella grotta. Tre vanno in ospedale perchè accusano sintomi di intossicazione da esalazioni. L’ospedale non li ravvisa e li dimette subito. Il contrammiraglio Domenico Picone ordina la chiusura della grotta. Ne nasce una polemica sul presunto tafazzismo delle autorità e uno scontro tra regione e governo. Che cosa è successo? Qualcuno dice che potrebbe essere stato lo sversamento dalla pompa di sentina di una barca, altri ricordano che tra il 1999 e il 2000 si aprì una falla nella condotta fognaria. E c’è chi dice che anche questa volta potrebbe trattarsi di una falla della condotta a un centinaio di metri dalla Grotta Azzurra, da cui sarebbe partita trasportata dalla corrente il liquido esalante. Questo smonterebbe l’ipotesi del complotto e attribuirebbe alle autorità dell’isola la responsabilità. L’Arpac l’agenzia per l’ambiente, sta studiando i campioni d’acqua e lo stato d’animo isolano è quello della sindrome d’accerchiamento. C’è un mondo in questa sequela di eventi estivi. Un po’ di superficialità, un po’ di stupidità, forse un pizzico di delinquenza, molto poco rispetto delle regole, pochissimo senso civico, e una dose fisiologica di malgoverno. Capri dopotutto è in Italia; e
sebbene, arrivando da Napoli, sembri quasi Svizzera, è anche un pezzo di Mezzogiorno. La questione è che questa è un’isola di 14.000 abitanti, i quali coltivano idee diverse sul che fare del tesoro su cui sono seduti, sul modo in cui tenere a regime il flusso turistico e sul modello di sviluppo imprenditoriale da scegliere, se debba essere un modello universale o se sia più intelligente puntare soltanto sul target alto. Il giorno successivo al caso Ecology, seduto al bar Tiberio in piazzetta, un signore del nord, un baffuto lombardo-veneto dice sfogliando i giornali: distruggono la loro fortuna, capresi e villeggianti. E’ quello che in altre zone d’Italia è già successo, è toccato a Venezia, comincia a toccare Roma.
Ma qui tutto succede in uno spazio estremamente concentrato. Che cosa si è perduto dei vecchi tempi? Capri cambia come il resto del mondo. E lo fa in due modi. Da una parte c’è il flusso del tempo, le mode che cambiano, i gusti che si modificano. Questo aspetto riguarda soprattutto i luoghi, le strade, i negozi. Prada cerca spazio, Bulgari e Vernhier pure. Prendono il posto dei negozi degli anni cinquanta, dei baretti e delle botteghe. Riguarda le case (quest’anno si è discusso molto se sia più bello l’intervento sulla casa Valsecchi-Nesbitt a Tuoro, o quella Thun in un piccolo spicchio di campagna che guarda il mare sulla via Torina, vista solo nel servizio di copertina di Elle Decor di luglio). Nonostante che in realtà nell’arredamento un vero stile caprese non esista (i napoletani portavano le specchiere dorate, i russi i legni scuri, gli inglesi i vetri riquadrati delle finestre, solo dopo sono arrivati i divani bianchi, i cuscini in tinte pastello e le corte frange, e dopo ancora la cultura delle candele diffusa da Daniela Di Stefano, interior design, sulla via Roma), nella sua radicale ristrutturazione la casa Valsecchi Nesbitt è più caprese ed è più bella di quella Thun. Il gusto che si modifica riguarda gli alberghi: il Jk, super Flair style, sembra una grande casa di Ralph Lauren sopra i resti di Palazzo a mare; il Capri Palace, grande successo
imprenditoriale degli ultimi anni, ridondante di tende e portatore di un fusionismo degli anni 2000, fatto un po’ di arte contemporanea, un po’ di cucina costosa e alla moda da stella Michelin, e un po’ di quel tipo di fragranza da olio essenziale. E riguarda ovviamente i ristoranti. Il Riccio è stato il fatto imprenditoriale dell’estate. Sta sopra la Grotta Azzurra (simbolicamente). Nei colori è più greco che caprese, a causa di un turchese pronunciato, ma ha una sua logica trasformatrice. E il proprietario del Capri Palace, Tonino Cacace, che lo ha rilevato e ristrutturato, da molti qui viene considerato il leader di una moderna rielaborazione imprenditoriale della capritudine che ha l’obiettivo di ammodernare l’armamentario del mito e di tenerlo vivo. Il secondo modo di cambiare è più radicale e ha a che fare in senso più profondo con l’identità. Se vi capitasse di andarvene un giorno sulla strada che da Anacapri porta al Faro o quella che porta alla Grotta Azzurra con una vecchia Cinquecento giardinetta da tre metri di lunghezza, tetto apribile quattro posti, a una velocità di punta non superiore ai 50 all’ora, vi accorgereste di quello che è ovvio: quelle strade, quei tornanti, quelle curve sono fatte per mezzi con quelle caratteristiche. Le strade diventano più larghe, le curve più dolci, l’aria si sente di più. Oggi questa sensazione è scomparsa. Dei vecchi taxi ne è rimasto uno solo, che quando un americano o un australiano eccentrico decide di sposarsi qui, di sicuro prende in affitto. I taxi cabriolet sono lunghe Fiat Marea modificate da cinque metri e Nissan Serena poco sopra i quattro metri. Quando si incrociano sulla strada che sale da Marina Grande o quella che porta a Marina Piccola la sensazione ottica del passeggero è che gli specchietti retrovisori si toccheranno (e qualche volta accade). Ogni duecento metri c’è una fermata, un rallentamento dovuto al fatto che nei punti in cui le strade si stringono bisogna passare al centimetro soprattutto se di fronte c’è un autobus. Anche gli autobus per quanto piccoli sono troppo grandi per queste strade, e adesso ci sono anche
le navette degli alberghi o per i gruppi turistici. Gli autobus di linea sono un simbolo di una forma di stupidità autodistruttiva. Corrono sulla via Roma, indifferenti alle piccole cunette di gomma messe sull’asfalto, e fanno il pelo a chi cammina sui marciapiede, senza che nessuno intervenga. E’ curioso che in tempi di green economy imperante, non ci sia ancora un progetto per elettrificare completamente i trasporti pubblici capresi e fissare limiti insormontabili di velocità. Le dimensioni dei mezzi crescono, perché accanto alla naturale vocazione del turismo dei ricchi, qui è cresciuta una forma di turismo da sfruttamento intensivo degli spazi che l’isola non è in grado di sopportare, ma che una piccola gilda di armatori non locali, di barcaioli e di commercianti locali difendono aggressivamente, come nel caso del flusso di visite alla Grotta Azzurra. Ma Capri non è in grado di reggere a lungo i barconi dei gitanti che fanno in continuazione il periplo dell’isola, non regge il flusso del turismo di giornata, che porta pochi soldi e che affatica le condizioni generali delle strutture ricettive. Sono ormai molti decenni che si è ribaltato il principio del turismo di una volta. La gloriosa pensione Weber, da molto tempo è stata rimpiazzata da un brutto albergo sulla Marina Piccola. E’ la vita, è vero. Però il nuovo Weber continua a produrre mutazioni ambientali definitive: dopo un lavorio amministrativo durato anni, quest’anno è stata ultimata la costruzione di una piscina panoramica che ha comportato uno sbancamento al confine con la parte inferiore della via Mulo.
Il caso più emblematico di queste trasformazioni è un piccolo caso di decesso laterale, minore, e apparentemente senza significato: la morte delle vecchie scarpe di corda capresi. Sono scarpe di cotone pesante, con una suola di corda intrecciata estremamente resistente. Al tempo stesso popolari ed elegantissime nel loro ecrù di base e nell’offerta basica delle varianti: blu marino, nero, giallo, rosso. Le scarpe di corda non esistono più. C’è ancora una mitica macchina
per produrle. Dopo la morte dell’ultimo artigiano che le produceva, è rimasta inerte per alcuni anni. L’anno scorso l’ha comprata un commerciante che ha un negozio di scarpe a Marina Grande. Dice che non trova nessuno disponibile a lavorare alla macchina. E se continua a non trovarlo, proverà a mettercisi lui. Non esistono rimanenze di queste scarpe, se non – si favoleggia – una piccola scorta di numero 36. Chi ce le ha ancora le cura con il Vinavil, da passare ogni anno sotto la suola di corda, e con pazienti rilegature fatte in casa. Quando un proprietario di capresi ne incontra un altro, nasce sempre uno spettacolino di reducismo, perché qualunque forma sostitutiva delle scarpe di corda lascia un fondo di nostalgia. Naturalmente è difficile distruggere l’identità. Perché è coriacea, perché è antica, perché è fatta del mito innanzitutto, contemporaneamente regale, e ogni tanto anche approssimativo. C’è la grandiosità tiberiana (se quella di Tiberio va considerata un corpo unico costellato di gioielli da Damecuta a Palazzo a mare, Capri è la più grande residenza di un capo di stato della storia); poi ci sono i resti di 1500 anni di solitudine isolana dopo la fine dell’impero, la grotta del Castiglione come rifugio, la miseria delle marine immortalata dalla pittura ottocentesca, eccetera; e infine la rinascita con la riedizione del mito, prima i tedeschi arrivati nella seconda metà dell’Ottocento e subito a seguire il grande spettacolo in costume del Novecento: fino a Dado Ruspoli e a Pupetto Sirignano (leggere assolutamente le sue “Memorie di un uomo inutile”), partendo dalle signorine Wolcott-Perry, e dai noiosissimi svedesi Fersen e Axel Munte. Edwin Cerio nume tutelare della capritudine del 900 detestava, ricambiato, Munthe il quale aveva una altissima reputazione di se stesso. Quando andava a colazione da lui, Munthe per dispetto gli faceva preparare pietanze a base di aglio e cipolla, perché Cerio non ne mangiava. L’ospite con altrettanta perfidia gettava il contenuto dei piatti in una anfora greco-romana (fasulla secondo il suo giudizio) che stava al lato del tavolo da pranzo. Munte non se ne accorgeva, giacché verso la fine
era cieco. Le case, la formidabile casa Malaparte (stupefacente sintetica icona del secolo, come la casa sulla cascata di F.L. Wright o come la Farnsworth House di Mies van der Rohe), i languori estetizzanti di villa Lysis (Fersen) o di villa San Michele (ancora Munthe), la cupa Moneta, il Monacone, e poi le case sopra la piazza sulla via di Madre Serafina, e ancora le grandi case ristrutturate nella parte dolce di Anacapri quella che scende morbidamente verso Cala del Rio e il Faro. Il mito si regge sulle memorie. La Conchiglia è una libreria ed è una casa editrice fondata da Riccardo Esposito e Ausilia Veneruso che quest’anno festeggia il suo ventesimo anniversario: ha un catalogo di 260 volumi circa, l’ottanta per cento dei quali su Capri e la capritudine. Dal decadente cosmopolitismo isolano di Compton Mackenzie, “Le vestali del fuoco”, molta frociaggine Fersen e Wolcott–Perry, fino a un autore solido come Norman Douglas, passando per Raffaele La Capria (il migliore interprete di quella che già negli anni 50 possiamo considerare la Capri moderna), e poi Edwin Cerio e ancora una infinita serie di libriccini sulle case, le abitudini, le rocce, i giardini, le memorie. Un campo in cui si scatena il gusto personale, ovviamente: per esempio, qui si dichiara di stare dalla parte di Claretta Cerio, perché dopo aver letto suo marito Edwin, lei è più franca, naturale e divertente. Ora, l’identità caprese – su cui il mito svolge un lavorio ambivalente, giacché il mito affatica, e tende a ripetere se stesso e il suo disco – è anche una forma di specifica vitalità. “L’isola ha un’atmosfera tutta sua, un’arietta peculiare, dalla quale sembrano nascere le vicende di uomini e animali e anche di luoghi», scrive Claretta nella premessa a Nulla fluat. Capri resta, nonostante l’erosione culturale di cui è vittima, l’isola più bella del Mediterraneo. Vista dal mare è grandiosa. Dal Sassopiatto alzi gli occhi su uno sperone dolomitico che da quel punto sembra miracolosamente sospeso, con i pini marittimi che si affacciano sullo strapiombo. Marina Piccola è una baia incantata, É bellissima da Cetrella e dal Castiglione.
Bellissima da terra quando di notte guardi le luci delle barche alla fonda. Bellissima da Tragara con la luna che sta dalla parte del monte Solaro, e tutte quelle canzoni sulla luna rossa e la luna caprese, che un tempo avreste liquidato come sentimentali, vi ritornano in mente con un altro senso. Bellissima dal mare di notte quando l’acqua è ferma e qualche volta molto di rado, per la verità le vetrate del Castiglione sono accese, perché i proprietari stanno qualche giorno sull’isola. Quando si avvicina il tramonto ci sono le spedizioni dei pescatori di pezzogna. Vanno su una secca a trecento metri dal Faraglione esterno che è ricca di corallo (altri vanno alla secca delle Vedove verso Ischia). È rimasta qua e là anche la cucina caprese, quella della case, e quella dei ristoranti dalla parte di villa Jovis, la Savardina o le Grottelle. Capri è ancora un posto dove la sera si va dormire senza chiudere la porta di casa, perché l’isola protegge sempre sè stessa. Per la stessa ragione, l’isola – cioè gli isolani, i villeggianti e gli ospiti – dovrebbe decidere che rinnovare il mito di sé nella correzione civica di tutto quanto non funziona è una forma di autodifesa. Motto di Augusto Weber, fondatore della pensione e nonno di Claretta: Nulla fluat cuius meminisse velis. Che nulla avvenga di cui tu non ti voglia ricordare.

di Marco Ferrante