Laudatio Urbis
Martina Franca negli anni ‘70
Dal libro sul 50^ anniversario del Festival della Valle d’Itria
Marco Ferrante
Alla fine degli anni sessanta, la Puglia era già un tentativo di Mezzogiorno possibile e diverso: gli stabilimenti industriali di Taranto e Brindisi, le prime avvisaglie di un turismo internazionale, una crescente consapevolezza del territorio, la bellezza dei centri storici delle città e soprattutto l’ordine primario delle campagne. E l’indole dei luoghi: l’indipendenza dei caratteri, l’irredentismo, una linea di continuità che va dall’assedio di Otranto fino alla resistenza al cardinale Ruffo, da Maria Corti a Raffaele Nigro.
In un breve intervallo, a cavallo tra gli anni ‘60 e i ‘70, nasce un piccolo astro locale, una città simbolo delle trasformazioni in atto. È Martina Franca, la capitale della Murgia del sud e della Valle d’Itria. Bella di una altera freddezza barocchetta, leggermente con il naso all’insù, è una città di studi, di professioni liberali e d’industria. È la sede di un importante distretto industriale tessile e vi si è sviluppata una borghesia abbastanza moderna, erede in parte dell’antifeudalesimo, della proprietà parcellizzata (contro il latifondo salentino e della Capitanata), erede della rivoluzione napoletana del 1799 e dei due alberi della libertà piantati in piazza a distanza di pochi mesi. È anche una borghesia profondamente stabile nella dimensione del potere, cattolica e anzi democristiana (con maggioranza assoluta scudocrociata fino agli anni ‘80 del Novecento).
Dalla fine degli anni ‘60 coltiva una ragione in più per arricciare il naso e pavoneggiarsi. Su richiesta di un sindaco brillante, Alberico Motolese, lo storico dell’arte Cesare Brandi accetta di integrare una serie di brevi scritti sulle meraviglie regionali raccolti in un libro del 1960, “Pellegrino in Puglia”, con un saggio sulla nascita del barocco martinese. Motolese vive in campagna a Palesi (insieme all’aristocratica Ermellina dei Blasi e Tagliente dei Fumarola, forse le più emblematiche masserie di questo ritaglio di Murgia). Gli manda un contratto attraverso un intermediario. Brandi scrive su commissione ottanta pagine dense, libere, intelligenti e anche molto sincere ed esplicite sulla stranezza del luogo. Un piccolo insediamento successivo all’anno mille, è istituito in città da Filippo d’Angiò nel 1310. Si popola di una varia umanità medievale, compresi sbandati e banditi a cui viene promesso un forte incentivo fiscale. Quattrocentocinquanta anni dopo, gli sbandati sono diventati sufficientemente colti, ricchi, borghesi e accettano la sfida estetica del feudatario. Pertanto trasformano la vecchia architettura dei tetti a pignone in una smerlettatura frivola ed elegante, una definitiva minigonna di provincia, provocante e ritrosa.
Il saggio di Brandi viene accolto dalla comunità con entusiasmo non del tutto consapevole: nel libro c’è una punta di indulgenza per l’ingenuità dell’operazione barocca. Comunque, segna simbolicamente l’inizio di una nuova era che si compirà con due operazioni culturali molto interessanti e del tutto insolite per le condizioni del nostro Mezzogiorno. Nascono due istituzioni parapubbliche: il festival della Valle d’Itria che vuole riscoprire una parte della tradizione belcantistica sette e ottocentesca soprattutto del Mezzogiorno e il premio Martina Franca di poesia.
Entrambe le iniziative – iniziativa era una tipica espressione di quei tempi – nacquero sotto la protezione di Paolo Grassi. All’inizio del secolo, il padre di Grassi, Raimondo, aveva lasciato Martina Franca e aveva fatto una carriera di pubblicitario a Milano. Paolo si avviò alla critica e dopo la guerra fondò insieme a Giorgio Strehler il piccolo teatro di Milano. Negli anni il suo legame con l’origine pugliese restò saldissimo. Il festival della Valle d’Itria fu un’idea di Alessandro Caroli, terzo fratello maschio di una famiglia che stava affermandosi nell’egemonia del potere locale. Grassi approva dall’alto. Il premio poesia viene invece affidato a Michele Pizzigallo, molto rispettabile professore e poi preside e padre di un futuro grande amico, Teo, allievo di Aldo Moro. A garantire l’operazione contribuirono oltre a Grassi – che entrò in giuria insieme con Giulio Cattaneo, Giacinto Spagnoletti e Giorgio Caproni – anche Giovanna Bemporad, amica di Cristina Campo (una delle più irregolari e talentuose scrittrici italiane) e di Pierpaolo Pasolini. Giovanna aveva sposato Giulio Orlando, ministro delle poste all’epoca di questi fatti, cugino di Paolo Grassi. Un solido assetto di potere culturale vigilava sulle mura angioine.
Il Festival nacque nel 1975, il Premio nel 1976. Il primo era estivo e arioso di una sua intrinseca murgesità, aveva la sua base nel cortile del palazzo ducale. Il secondo, più curiale, si teneva all’inizio dell’autunno dall’altra parte della porta di Santo Stefano (o arco di San Martino) – accesso principale della città barocca – nella sala del teatro Verdi affacciato sulla nuova piazza extra murale, il cosidetto Stradone. Qualche anno dopo sarebbe arrivato il Teatro Nuovo dei Semeraro, luogo di felicità della nostra giovinezza.
L’impulso esterno ebbe un peso nella fortuna della loro storia e reputazione. L’ombrello di Grassi era ampio per la sua influenza sulla cultura italiana. Due anni dopo la nascita del Festival fu nominato presidente della Rai, circostanza che aumentava il prestigio delle sue creature. L’asse con Orlando dava robustezza politica alle ambizioni della città, che per parte sua contribuiva con una classe dirigente ancora di qualità al successo delle due iniziative.
Difficile dire con gli occhi di oggi, quanto nella vita di allora queste due istituzioni avessero davvero a che fare con la città profonda, che usciva dal bigottismo del dopoguerra e si proiettava in una competizione campanilistica contrapposta a Taranto: Martina culturalizzante, Taranto industrialista. Di sicuro, però, con la nascita del Festival e del Premio la città ufficiale dà vita a una sua nuova identità, in un certo senso diretta erede di quella settecentesca, e decreta compiuta una prima fase di percorso.
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Gli anni ‘70 sono anche gli anni della società che cambia e si autogenera, liberamente. Anche nel Mezzogiorno. Cambiano i costumi, i comportamenti, i riferimenti. Culture, subculture, venti del nord, del west, dell’est, contribuivano ad alimentare la generazione dei nati negli anni ‘50, figli della guerra finita.
Secondo Antonio Scialpi, all’epoca giovane intellettuale e dirigente comunista, che lo racconta al blog di Radio Farfalla (di cui tra poco), una componente decisiva della trasformazione arrivava dai nuovi uomini di chiesa e dalla nascita di nuove associazioni giovanili collaterali alle forze politiche, sindacali, chiesastiche. Nel 1971 nasce L’UGT, Unione Giovanile Teatrale, fondata da Gerardo Martino e Raffaele Agrusta. Agrusta e Martino, amici fraterni, condividono la passione per il teatro con Dino D’Arcangelo e con un folto gruppo di amici. Portano un vento di novità. Studiano al Dams di Bologna, allargano l’orizzonte, fondano una piccola radio privata, pioniera, Radio Farfalla appunto. L’esperienza della radio è un punto decisivo in questa storia. Nasce nell’estate del 1974. Prima messa in onda, una canzone di Joni Mitchell. Radio Farfalla definisce un format e ispira altre esperienze dell’emittenza libera del comprensorio, a cominciare dalla concittadina Radio Martina 2000. Ma soprattutto genera un’esperienza condivisa. Su blog.radiofarfalla.com sono raccolte le testimonianze dei fondatori e dei partecipanti, un racconto dell’energia di quegli anni, vivida, allegra, in un certo senso generale, in una ambientazione insolita, una città collinare del Mezzogiorno circondata da trulli.
Due anni prima in questa stessa atmosfera di ottimismo, attivismo, fiducia e progressismo della comunità, era nata un’altra esperienza, una tv privata, una delle prime del Mezzogiorno – tecnicamente la seconda, come ricorda Gianfranco Liuzzi, il giovanissimo ingegnere responsabile tecnico dell’operazione. La tv, nata come emittente via cavo, fu battezzata molto semplicemente Telemartina. Il fondatore della tv era Glauco Ferrante, imprenditore tessile, mio padre. Nato a Martina da una coppia mista – rarità di quegli anni: madre martinese, padre napoletano. Glauco aveva un insolito cursus honorum, liceo classico, una laurea in chimica (a Bologna, come Martino e Agrusta), ufficiale di Marina, a completare la formazione un giro del mondo in Lambretta sostenuto dal produttore. Aveva fatto le tappe americane, due anni tra Sudamerica e Stati Uniti, con una dotazione di esotismo e di lingue straniere. Tornò in Puglia con l’idea di contribuire allo sviluppo della sua comunità. Entrò nel settore tessile, cuore delle attività industriali locali, e per una curiosità dovuta alla passione politica, fondò la tv privata coinvolgendo un gruppo di amici, provenienti dalle professioni liberali, e colleghi imprenditori.
Tanto le radio quanto la tv contribuirono a fare della piccola capitale murgese bianca e grigia un insolito luogo secolare. Clima provocante, divertente, avventuroso. Radio Farfalla e Telemartina avranno destini diversi. La radio sarà sviluppata da Agrusta nella sua dimensione di pieno business pubblicitario. E sarà poi ceduta negli anni delle concentrazioni radiofoniche. Telemartina invece chiuderà i battenti dopo qualche anno di attività, perché gli investimenti necessari sono troppo alti e perché nel frattempo altre realtà televisive più efficienti stanno prendendo piede – una di esse, l’emittente che diventerà leader del mercato pugliese, grazie al contributo di esperienza coagulatosi intorno alla vicenda martinese.
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Resta però, la storia sconosciuta di un primato. Perché fu Martina a sviluppare questa esperienza come transitorio primato meridionale che non sarebbe rimasto? E perché questa esperienza si fermò?
Prima domanda, perché Martina? Per una serie straordinaria di cause. Sicuramente per la storia della città, portatrice di una vitalità soggettiva irriducibile e indipendente allineata ai tempi entusiasmanti del dopoguerra. Questa vitalità fu condivisa da buona parte della classe dirigente locale, prima ancora di quella politica. Imprenditori intraprendenti, spirito emulativo, associazionismo, suggestioni e istituzioni culturali (l’esempio più rappresentativo è il gruppo “Umanesimo della pietra” pensato e guidato da Domenico Blasi). Negli anni ‘70, la città si arricchisce e assorbe gli stimoli e li traduce in riflessione collettiva, da cui generano azioni.
Seconda domanda: perché finì? Probabilmente perché si esaurì l’energia di una fase, rivelatasi per qualche misteriosa ragione del genio collettivo un propellente occasionale. È una domanda ricorrente nelle riflessioni dei protagonisti e dei testimoni. Alcuni pensano che nella dialettica tra le novità di quei dieci anni e il tran tran abitudinario della vita che nelle famiglie proseguiva pressocché identica, prevalse il tran tran. È la cosa più probabile. Non furono né il riflusso, né il conformismo, semplicemente le onde che si riducono in risacca.
Delle quattro iniziative di allora (Festival, Premio, radio e tv), è rimasto soltanto il Festival. Per testimonianza diretta e amicizia affettuosa – per quanto egli fosse un uomo che coltivava una separatezza di fondo – il Festival sopravvisse per la caparbietà di Franco Punzi e per l’intelligenza del suo rapporto con Rino Carrieri. Questo non significa che nel Mezzogiorno un successo condiviso sia possibile solo in quanto accidentale o fortuito. Franco e Rino hanno coltivato un disegno e difeso sempre l’idea originaria della rassegna.
D’altra parte, non è vero che tutta l’onda di allora non abbia prodotto un risultato. Lo ha fatto, ma traslandolo su un piano diverso, di eredità in un certo senso. La componente culturale spontanea e autoprodotta che le radio, la tv e le molte pubblicazioni locali costituirono, convisse con la componente più paludata e ufficiale del Festival e del Premio Poesia. E la strana combinazione determinò un riflesso nelle generazioni successive, in un contesto che non era più di miglioramento delle condizioni economiche, ma reclamava qualcosa di più.
Uno dei risultati di questa vitalità si manifestò nella storia del Liceo Classico Tito Livio. Erede di una struttura fondata alla fine dell’Ottocento per il lascito di un medico, Antonio Bruni, ai tempi di queste vicende era diretto da un uomo di grande intelligenza, Virgilio Corrente. Per quattro generazioni di suoi studenti è rimasto una figura di riferimento, spiritosissimo, severo, inclusivo, leader naturale, non aveva bisogno di manifestare il suo carisma. C’era. A partire dagli anni ottanta, esce dal Tito Livio un certo numero di studenti che si avvierà alle professioni intellettuali e/o artistiche, restando sempre legato alla città. Beppe e Angelo Aquaro (che purtroppo non c’è più), Antonella Baccaro, Rossella Brescia, Alessio Caliandro, Donato Carrisi, Paola Chiarelli, Mario Desiati, Giuseppe Girimonti Greco, Giorgia Lepore, Giancarlo Liviano d’Arcangelo, Simona Micali, chi scrive. Libri, giornali, radio, tv, cinema. Tutti compagni di scuola. Che si sia trattato di un naturale processo imitativo e competitivo o di una specie di microbuddenbrookismo murgese è difficile a dirsi. Prima o poi dovremmo fare un convegno.
Martina Franca, Apollinaire 1968, a cura di Aldo Perrone, La Nave di Teseo
Gianni Corrente, “Premio Martina Franca di Poesia 1976-1986”
Il Festival della Valle d’Itria, 40° anniversario
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