Pezzi lunghi – Le Corbusier

AD, luglio 2015, a cinquant’anni dalla morte, che cos’è Le Corbusier nel nostro immaginario

Cinquant’anni dalla morte di Le Corbusier, ucciso settantottene a Roquebrune da un attacco cardiaco mentre nuotava. Morte estremamente in linea con la modernità che aveva contribuito a fondare. In Francia sono in programma celebrazioni di ogni tipo: lui nell’arte contemporanea, lui e i colori, lui e la sua architettura a misura d’uomo, lui e le sue opere, Poissy, Marsiglia, Chandighar. La Fondazione che vigila occhiuta sulla sua Opera dovrà far fronte alle richieste di visite nell’appartamento sul limitare del Bois de Boulogne, dove visse con la moglie Yvonne dal 1934 e dove introdusse i colori.

Sono passati quasi cent’anni dalla comparsa di Corbu sulla grande scena europea. Del suo ruolo nella storia dell’architettura sappiamo, ma che parte ha l’architetto Clarles Eduard Jeanneret-Gris nell’immaginario contemporaneo?
Un buon punto di partenza è una scatola nera, in commercio nelle grandi librerie, negli shop dei musei e nei buoni negozi di giocattoli. Contiene 660 pezzi e 155 pagine di istruzioni. Con qualche ora di lavoro ne ricaverete un modellino con base 192×192 mm e altezza 92 mm. Villa Savoye a Poissy, disegnata da Le Corbusier nel 1928. Fa parte della serie Architecture della Lego, un piccolo catalogo di sole quattro case: insieme alla Farnsworth House di Ludwig Mies Van der Rohe, alla Fallingwater e alla Robie di Frank Lloyd Wright. Il risultato di 2-1-1 a favore di FLW, è un ludico risarcimento per il patriarca americano che odiava Corbu e lo accusava di tutte le nefandezze moderniste; mentre si limitava a detestare architettonicamente Mies al quale però riconosceva un’adiposa bonomia olandese.

Sul retro, la scatola riprende graficamente i 5 punti qualificanti di un edificio moderno secondo Le Corbusier: i piloni, la facciata libera, la pianta libera, le finestre a nastro, l’uso della terrazza. Il tutto per 69,99 euro e un week-end di divertimento. È solo una delle sue radenti e innumerevoli tracce. Digitando la parola “architettura” su Google, la terza voce automatica è “architettura Le Corbusier”. Quasi un sinonimo.
Più di tutti gli altri creatori dello Stile Internazionale – che cambiò la storia dell’architettura e aprì una frattura mai rimarginata nella filosofia della costruzione e dell’arredamento – Le Corbusier è diventato anche soggettivamente un’icona. L’aria separata e distante che corrispondeva al carattere freddo, determinato, in perenne guerra per l’affermazione di una idea; la figura asciutta, il papillon e gli occhiali circolari realizzati su suo disegno dalla Maison Bonnet che ancora adesso li produce insieme ad altri capolavori dell’occhialeria dell’altro secolo: la montatura per Yves Saint Laurent o quella per Aristotele Onassis.

Forse, nella cultura di massa, il contributo principale al suo mito arriva prima che dall’architettura dal design, dove il suo nome è strettamente intrecciato a quello di due collaboratori storici. Pierre Jeanneret, cugino, socio e amico inseparabile e l’istintiva, geniale Charlotte Perriand – con Eileen Gray, la più importante creatrice di mobili del ‘900. La storia del rapporto professionale tra Charlotte e Corbu è meno raccontata di quanto meriterebbe, per le conseguenze che ebbe sul modo in cui il design internazionale entrò nelle nostre abitudini estetiche. Il contributo di Charlotte alla linea degli arredi proposta dall’atelier del maestro fu decisivo. Acciaio, pelle, tele industriali, molle e una fitta rete di cuginanze con Erbst, Chareau e naturalmente con il Bauhaus: Stam, Breuer e Mies. Completamente sue – di Perriand – sono le poltroncine girevoli (LC7) disegnate in origine per il suo tavolo da pranzo nell’appartamento parigino di Saint Sulpice, e molto di suo c’è nella poltroncina LC2, poi regina delle sale d’aspetto e delle hall occidentali, e anche nella mitica chaise longue dal profilato d’acciaio curvo imparentata con l’aeronautica.

Non c’è sito, rivista o pubblicazione d’arredamento, non c’è fabbricante fuori dai diritti d’autore che non viva della firma Le Corbusier-Jeanneret-Perriand. Phaidon Design Classic è un’iconica enciclopedia dei simboli della manifattura industriale con larga e definitiva influenza, significato persistente e forma immutabile. Si tratta di tre libroni gialli con scritte rosse e nere che, al netto di qualche inevitabile arbitrarietà, raccolgono 999 creazioni risolutive. Quelle del trio sono cinque, contro sei di Breuer, cinque di Eileen Gray e quattro di Mies per stare agli stretti contemporanei. Al numero 171 – tra una maniglia attribuita al filosofo Ludwig Wittgestein e una lampada da comodino di Marianne Brandt – compare l’oggetto più influente e rappresentativo dell’atelier Corbu: la chaise longue LC4. Scrive Charlotte nella sua autobiografia: “La crociera della chaise longue ci procurò molti tormenti. A forza di tentativi e bozzetti, decidemmo di realizzarla in modo che si accompagnasse con quella del nostro tavolo dal piano in vetro di villa Church, così da dare unità alle nostre creazioni. La piccola meraviglia era un profilato ovoidale in lamiera d’acciaio laccato, scoperto per caso in un catalogo di articoli per l’aviazione”. Quando Corbu le vede per la prima volta a casa di Charlotte insieme con i prototipi di LC1, LC2 e LC7 dice: “Sono graziose”. Non sanno ancora che la LC4 – come la stessa Charlotte scriverà – diventerà “uno dei simboli di questo secolo”. Accadrà dopo, a cavallo degli anni ’70, quando le geniali intuizioni europee degli anni ’20 e ’30, dal Bauhaus in avanti, pensate originariamente come oggetti industriali a disposizione delle masse, diverranno simboli di un elitarismo internazionale e metropolitano che offrirà argomenti di polemica ideologica ai nemici del modernismo.

La LC4 è un attrezzo enunciativo, oltre che molto comodo per un pisolino, come sa chi ne abbia approfittato per un benefico dopopranzo. Ma l’uso privato soccombe di fronte alla forza emblematica. È la poltrona psicanalitica quando scoppia il boom della psicanalisi: adottata nella realtà negli studi di psicanalisti con estetiche pretese di attualità, ma anche nel cinema e persino nei porno.
La macchina autopromozionale del design e dell’arredamento d’autore se ne appropria. Una perfetta casa da fotografare esibisce i suoi modelli preferiti: per gli anni ’20 le Barcelona di Mies (oggetto aspirazionale per una generazione di architetti modernisti squattrinati, secondo un mirabile e abrasivo ritratto di Tom Wolfe in “Dal Bauhaus a casa nostra”); i tavoli Laccio di Breuer; e la chaise longue LC4. C’è un bellissimo spot pubblicitario della metà degli anni ’80 – chissà perché la nostra gioventù ritorna sempre! Per una campagna Stock 84, su una LC4, nella preziosa versione tappezzata in cavallino, si sdraia un quarantenne belloccio rientrando a casa in una sera di pioggia. Colonna sonora Alan Parson Project, “The Gold Bug”. Lei compare all’improvviso tra gli stipiti, ed entra sorridente, bagnata di pioggia come Andy McDowell nella scena finale di “Quattro matrimoni e un funerale”.

Nella versione inglese e in quella italiana dell’autobiografia di Charlotte, la LC4 – tappezzata in tela grezza e pelle – è in copertina con la sua creatrice. È una foto del 1928. Il piano della chaise longue è messo in modo da tenere la schiena in orizzontale e le gambe rialzate. Charlotte è distesa, guarda dalla parte opposta dell’obiettivo verso il muro. Ha una gonna sotto il ginocchio, il cui drappeggio scende all’altezza delle zampe anteriori della crociera, calze velate, un tacco da 5 cm. La foto è bellissima, con un pizzico di mistero.
Rimanda a due anni prima. Nel 1926, in una sessione al Bauhaus, il fotografo Erich Consemüller aveva immortalato una donna con abito disegnato da Lis Beyer e il volto coperto da una maschera di Oskar Schlemmer, seduta sulla Wassily di Breur, forse la poltrona da cui tutto era cominciato. L’identità della donna è incerta: la stessa Lis Beyer, che lavorava nella sezione tessuti del Bauhaus, o Ise Gropius, moglie dell’inventore dell’istituto, Walter, detto il principe d’argento.

Il mito, del resto, spunta dove meno te l’aspetti. Kenye West è nato ad Atlanta nel 1977. È il figlio di una Pantera Nera, Ray West, e di una inglesista, Donda West, già capo dipartimento di Inglese all’università di Chicago, morta prematuramente in seguito a un intervento di chirurgia estetica. Ha sposato la socialite Kim Kardashian da cui ha avuto una figlia, North (West). Questo nella vita personale. In quella pubblica è un famoso rapper, produttore discografico, eccetera eccetera. Nel 2013 pubblicò l’album Yeezus. Nel lancio, rilasciò un intervista al New York Times in cui per spiegare come fosse cambiata la sua musica – ormai spigolosa e minimalista rispetto a una decina di anni prima – disse di essersi ispirato a una lampada di Le Corbusier, che teneva in casa nel suo loft a Parigi. Siti e riviste si interrogarono su quale potesse essere la lampada, nessun indizio. Nel 2015 Le Parisienne sembra aver svelato il mistero. È l’Escargot. Un guscio di ottone e alluminio che sprigiona una luce ambrata, in cui – come nella foto del catalogo dell’azienda produttrice Nemo – un cocker si specchia. Nella casa parigina del 16 arrondissment, l’Escargot è nello studio del maestro ai piedi di un cavalletto con una grande tela del 1923, da lui firmata.

Le Corbusier resterà un brand tutto compreso della modernità. Terrazze-giardino, cabanon, dandysmo, eclettismo, architettura totale, puro ‘900, cioè idee che plasmano gli uomini. Come tutti i miti, Corbu viene ovviamente rivisitato, vivisezionato, eroso dalla sua stessa fama: il tetto di Villa Savoye che fa acqua, secondo la denuncia di chi la abitava; le polemiche degli avversari dello stile internazionale, imputato di snobismo e inumanità; le accuse di antisemitismo; le lettere scritte a Mussolini e che comunque sono l’altra faccia delle commesse ottenute nell’Unione Sovietica stalinista.
Poi c’è la storia dello Stile. Ed è difficile immaginare come vedremo quei tempi al prossimo cinquantesimo. Nel 1951 a palazzo Labia, Venezia, si tiene una delle memorabili feste del secolo. Mille invitati. Il padrone di casa Charles de Bistegui y de Iturbe, messicano e francese, è un mito mondano, ricchissimo, sfuggente, sessualmente multiplo. Gli viene attribuita la paternità segreta di una figlia di altissimo rango, Cayetana d’Alba. Ci ha messo tre anni a preparare il suo ballo veneziano. Ha comprato il palazzo nel 1948, ha risistemato cinquanta tra stanze e sale, le ha dotate di conforts moderni e ha restaurato Tiepolo. Accoglie Salvador Dalì, l’Aga Khan, Orson Wells, Barbara Hutton, e quel che resta dell’aristocrazia europea, tra cui alcune decine tra principesse romane e napoletane e duchesse francesi. È vestito da procuratore della Repubblica di Venezia. Mantella cremisi, trampoli, parrucca bianca. È uno dei massimi interpreti del Gusto del secolo. Ha incorniciato un motto arguto: “L’uomo che pensa moderno è fuori moda”. Ma una ventina d’anni prima ha fatto una rischiosa operazione. Ha commissionato una formidabile casa sugli Champs Elisees al più grande architetto europeo, al campione del modernismo. Le Corbusier è all’apice del suo rigore. La commessa di Bistegui gli consente nuovi esperimenti, tra cui una costosa anticipazione della domotica, con intere pareti che si spostano elettricamente. Eppure il risultato di questo appartamento sarà anti-programmatico. Bistegui si annoia della modernità e dopo un’estate trascorsa a Salisburgo mischia le carte. Mobili barocchi, una scala elicoidale, cornici dorate, candelabri, e soprattutto il capolavoro surrealista della terrazza, attribuita a Dalì: una stanza senza soffitto, con un pavimento d’erba, un caminetto sormontato da uno specchio che per metà supera la recinzione alta due metri, con vista sull’Arco di Trionfo. Della casa – oggi distrutta – resta un ricco, fascinoso e suggestivo book fotografico. È Corbu sì, ma non è lui. Il volto di cera di Bistegui inghirlandato dalla parrucca nel ritratto di Cecil Beaton si specchia negli occhiali tondi del Maestro, e lo sfida. Al prossimo cinquantesimo.

Marco Ferrante