Alberto Arbasino
Il Riformista, 19 ottobre 2009
Grazie per il background, in ricorrenza del Meridiano arbasiniano
Il primo Meridiano dedicato ad Alberto Arbasino è appena uscito. Mondadori sta preparando il secondo. Questo Oscar italiano alla carriera arriva in un momento fatto apposta.
Giacché si discute molto di ceti medi, di imprenditori invisibili, di borghesia (e poi di élite, classi dirigenti e altri più alti derivati), e nella dialettica editoriale che intanto è diventata guerra tra giornali, si battaglia molto su che cosa sia questa borghesia e chi debba rappresentarla: se tocchi al Corriere della Sera, come vuole la tradizione nordica, se sia più adatta Repubblica, se vi sia ancora spazio per il compassato economicismo del Sole 24 Ore che negli anni aveva costruito un ponte tra difesa delle partite Iva e supplemento domenicale, o se sia il turno del Giornale di Vittorio Feltri di impersonare l’espansione della rivoluzione sociologica berlusconiana – il cui retroterra è televisivo – fissandola definitivamente sulle pagine stampate di un quotidiano.
In questa grande guerra editoriale, fatta di vendite e ruolo politico, per la verità c’è molta incertezza sull’oggetto del contendere, cioè l’eventuale ceto medio borghese a cui rivolgersi. Per esempio Enzo Bettiza, vecchia generazione, sceglie la nostalgia, cioè la borghesia non è più quella di una volta, mentre per Filippo Facci, che ha quarant’anni, semplicemente non esiste. Però, il racconto di un ceto medio borghese, ancorché spiazzato, in via di ricomposizione, diseguale, è ancora possibile e in parte il giornalismo se ne occupa. Il perimetro che lo descrive – e che deve coprire categorie molto diverse che per comodità cerchiamo di accomunare in una definizione più larga, cioè borghesia appunto, ma non sappiamo se questa parola funzioni ancora – è fatto grosso modo così. Ci sono i professionisti in crisi e gli imprenditori invisibili di Dario Di Vico. C’è il viaggio tra “il pubblico” degli studi tv e delle piazze di Marianna Rizzini sul Foglio. C’è un ceto
medio silenzioso, post-democristiano, osservante, noioso (e forse anche saltuariamente
un po’ escrementizio come ritiene l’antropologo Brunetta). E poi c’è ancora nella zona
più critica la borghesia classica, un po’ èlite o aspirante tale, un po’ imitatrice delle fasce alte, con tutti i tic arrampichini e grotteschi che ne conseguono. Questo è il terreno della poetica politica e sociale di cui, appunto, al Meridiano arbasiniano.
Arbasino è il più borghese degli scrittori italiani. E per questo l’uscita del Meridiano, curato da Raffaele Manica, diventa ancora più interessante, a causa di quello che gli accade intorno.
Nel suo lavoro di oltre mezzo secolo di giornalismo di lusso e letteratura ci sono tutte le sfumature di un ideale plot sulla vicenda italiana vista dal lato borghesia, intesa come ceto che sviluppa la propria identità sulla base di un principio di appartenenza, fatto di memorie ed esperienza, e di una disponibilità culturale a migliorare, a progredire, a crescere da una generazione all’altra. Ovviamente con tutti i difetti del caso. La signora Campoli dice nel secondo capitolo di Le piccole vacanze: «Chiamiamole signore, chiamiamole pure così, quelle signore di quella borghesia, media sa, un amico di mio marito sostiene che lo diverte tanto più del suo ambiente solito; queste signore che tentano scalate e arrembaggi, e si valgono dei pretesti più bizzarri. Incredibile. I bambini mandati a scuola nelle scuole migliori, tutt’un’opera sorniona per attirare i bambini a merende e festine, in casa capisce, le famiglie per lo meno al telefono dovranno farsi vive a ringraziare, e da cosa nasce chi sa cosa, si capisce».
Arbasino è borghese per fatto personale. Scrive nella Cronologia, apparato autobiografico al Meridiano: «Nati nel 1902 ed esattamente coetanei, mio padre e mia madre (figli e congiunti di avvocati) frequentarono insieme il Liceo di Voghera (ove ebbero come insegnante Diego Valeri durante la Grande guerra) e l’Università di Pavia, nell’età del charleston». Lo è per il gusto feroce dell’osservazione (la casalinga di Voghera) e per la linea della sua discendenza letteraria, dove sul lato italiano troverete Gadda (l’ingegnere in blu), Palazzeschi, che per primo raccontò il generone romano, e una vaga cuginanza – molto frammentaria – con Antonio Delfini. E sul lato straniero, su tutto c’è Proust, ma completamente rielaborato: in fondo, niente è più borghese, e
imparentato con Voghera, del Proust di Combray.
Iscritto alla classe dirigente letteraria dalla fine degli anni Cinquanta è stato anche un borghese politico, non solo per la formazione di mancato studioso o burocrate in affari internazionali, o per l’esperienza di deputato nel 1984, naturalmente con il Pri chiamato da Giovanni Spadolini (che pure lo aveva poco utilizzato al Corriere della Sera) e da Bruno Visentini, uno dei modelli del grande borghese italiano – almeno nella vulgata dell’élite antifascista. È uno scrittore sociale e politico, pamphlettista de In questo stato, scritto in tempo reale nel 1978 durante il rapimento di Moro, e resocontista dell’est nell’immediato del muro che si disintegra, con La caduta dei tiranni, pubblicato nel 1990 da Sellerio.
Nel ritratto borghese c’è anche la sua natura di eclettico, grande dilettante, autodidatta delle lettere e belle arti, che passa con disinvoltura dalla passione per il teatro e la musica a quello per la casa nelle sue varie gradazioni: dall’altitudine di una prolusione a un convegno sul design internazionale in Aspen Colorado sull’idea italiana, all’amore osservante per il genio snobistico di Mario Praz e la sua casa di una vita, manifesto estetico, il cui equivalente attuale, oltre il post-moderno, per una molto ipotetica generazione contemporanea di intellettuali altrettanto eclettici, è quasi impossibile. Ma dall’altro lato di questo estremo c’è ancora Voghera, con in casa «damaschi e velluti “da non sciupare”… e bronzi e Kitsch d’epoca» e poi le case della guerra, i ricordi di una dimensione sociale più scarna, povera e provinciale.
È stato anche un borghese televisivo, con un format abbastanza destrutturato in una stagione pre-Freccero e ancora educativa, in cui condusse Match, dove organizzava polemiche di studio con gli amici che accettavano le interviste: tra cui Monica Vitti e Susanna Agnelli, ma anche Montanelli, Bocca e Prodi. Certamente ha praticato una forma di snobismo professionale su un piano inarrivabile per questi tempi. Se questo lo assimili ai difetti delle èlite che non piacciono al Brunetta di cui sopra è una vecchia questione di cui si è molto discusso e su cui Arbasino è stato attaccato (d’altra parte, non piacerebbe a chiunque del mestiere vedersi pubblicare su Vanity Fair America un articolo
accanto a Truman Capote?). Di sicuro – però – sul piano della più intima struttura
ontologica della borghesia, lo snobismo, ovviamente in forme meno regali, è un
ingrediente essenziale. «Le dirò – prosegue la signora Campoli – che una di queste signore, che non conoscevo, è arrivata a fermarmi per strada facendomi gran complimenti “che bel vestito che bel vestito. Le sta a pennello. Chi glielo ha fatto così bene. Mi perdoni se oso”. Se potevo darle l’indirizzo della mia sarta; e io stupitissima, mai successo, mai pensato. Si intrufolano dappertutto».
Ma sin dai titoli dei libri (Fratelli d’Italia in testa), allo studio sui nomi, alle trovate che diventano slogan, la casalinga di Voghera, signora mia (origine pirandelliana, come lui stesso ricorda), la gita a Chiasso, o Grazie per le magnifiche rose – geniale titolazione – tutto concorre alla costruzione di un corpus dell’italianità. Più arduo stabilire che cosa sia rimasto di questa italianità, sia rispetto alla costituzione della società, al peso reale delle borghesie grandi e piccole che Arbasino ha descritto, sia rispetto allo specifico degli occhi di chi la osserva, in questo caso un prediletto di ottant’anni che esprime una formazione e una cultura senza eredi. C’è in lui una forma di tenerezza feroce nel guardare quello che siamo, italiani petulanti. Per esempio, a proposito di una specie di mitomania protagonistica di cui siamo vittime quando diventiamo contigui al successo degli altri, poiché Fratelli d’Italia è stato sempre inseguito dalla fama di romanzo a chiave, AA scrive nella Cronologia: «Ancora dopo il Duemila, dopo una lettura pubblica di Rap! ove tra vari jokes poetici v’era “spesso il male di vivere incontravo/ a Voghera ma non lo salutavo” – una “scioretta” m’ha chiesto siccome la sua mamma era di Voghera, chi era tra i conoscenti quel male di vivere».
Marco Ferrante