Da Il Messagero del Genneio 2013
È stato il più complesso interprete del capitalismo italiano. Non fu solo un capo-azienda. Le dimensioni della Fiat (284.000 dipendenti diretti nel 1979), l’influenza del gruppo torinese sull’economia italiana e una personale declinazione dello stile assegnarono a lui e alla sua famiglia una forma di regalità sostitutiva. Rafforzata dallo spirito sabaudo ereditato dal nonno e coltivato per tutta la vita. Fu anche il principale ambasciatore dell’italianità nel mondo e per lunghi anni il più influente Mister Europe agli occhi dell’establishment americano, attraverso soprattutto i rapporti con i Kennedy, con David Rockfeller e Henry Kissinger. Queste relazioni conservarono agli Agnelli e alla Fiat un certo spirito d’iniziativa italiano pur nel rispetto dell’alleanza con gli Stati Uniti: dallo stabilimento di Togliattigrad in Urss all’ingresso dei libici di Lafico nel capitale del gruppo.
Nel lungo lavoro di accreditamento internazionale, cominciato in gioventù in anni apparentemente inutili sulla costa Azzurra, a un certo punto Agnelli diventò un simbolo del capitalismo globale, pur provenendo da un paese di frontiera (come lui stesso considerava l’Italia) e senza essere l’uomo più ricco del mondo. A questo risultato arrivò grazie a un’interessante miscela fusionista in cui mise insieme lo status – appunto – di capitalista di frontiera, l’interesse per la politica, l’amore per l’arte contemporanea – raffinata anche grazie all’amicizia con il gallerista londinese David Somerset, che poi sarebbe diventato duca di Beaufort –, una grande facilità nei rapporti personali e il fascino fisico, il carisma. Andy Wharol lo ritrae con la sigaretta pendula tra le labbra. Nel 1967 Truman Capote, al massimo della sua fama (ha appena pubblicato “A sangue freddo”) scrive un lungo articolo su Vogue in cui racconta una crociera in Grecia con gli Agnelli sul Tritona di Theo Rossi di Montelera. È un protagonista del jet-set ma è anche un punto di riferimento delle relazioni transatlantiche.
In Italia, l’influenza di Agnelli fu vissuta con una classica attitudine idolatrica. Ad Agnelli regnante fu consentito di accrescere la posizione egemone della Fiat sul sistema industriale, economico e finanziario, fino all’acquisizione dell’Alfa Romeo. E gli fu perdonato non solo qualche errore politico come l’accordo sulla scala mobile nei due anni in cui fu presidente di Confindustria, ma anche l’enorme popolarità calcistica, causa Juve, e quell’eccesso di stile se si può dire così – per esempio il supersubacqueo Omega Ploprof sul polsino di una camicia di velluto blu in una giornata d’inverno in montagna – che ad altri sarebbe stato imputato come imperdonabile stravaganza.
A dieci anni dalla sua morte, la maggior parte degli osservatori concorda su due considerazioni. La prima: Agnelli è stato l’ultimo leader di un establishment economico e finanziario che sull’asse Milano-Torino, pur con i difetti costitutivi del capitalismo italiano, aveva garantito la stabilità delle classi dirigenti economiche. Un establishment che dopo di lui ha sostanzialmente abdicato alla sua funzione di èlite borghese. La seconda: in vece della classe politica è stato il garante internazionale della lealtà occidentale ed europeista dell’Italia negli ultimi quarant’anni del secolo scorso, ruolo che – ancora oggi in vece della politica – interpretano leader di derivazione tecnocratica come Mario Monti e Mario Draghi.
Il tempo di Agnelli cominciò a finire quando in Italia si affermò l’astro politico berlusconiano. È vero che in questi dieci anni la figura di Agnelli è stata accantonata. E una delle ragioni sta nel fatto che in questi anni la presenza e l’influenza di Berlusconi è stato il tratto dominante del discorso pubblico. Nella sciatteria collettiva che è seguita alla sua scomparsa, ha avuto un peso il riflesso dei vent’anni berlusconiani, la carnalità dell’imprenditore che sceglie direttamente la politica per difendere i suoi interessi senza la mediazione di un corpo intermedio; cosa inconcepibile nella visione di Agnelli, poco amante dei partiti liturgici e levantini, ma molto rispettoso delle leadership politiche. Inoltre sulla fortuna postuma di Agnelli, negli anni in cui Sergio Marchionne avviava una nuova stagione del gruppo automobilistico, probabilmente ha pesato anche una mancata presa di distanza da parte di Torino sul decennio del pieno dominio di Romiti sulla Fiat: gli anni del privilegio, fase classica nella vita di una avventura capitalistica che peraltro, stando proprio a una sua definizione, ad Agnelli non piaceva.
Oggi in un momento di complessa evoluzione del sistema politico e della rappresentanza degli interessi, la centralità della reputazione internazionale come elemento fondante del capitale politico di un paese rilancia la discussione sul ruolo dell’Avvocato e sull’apporto delle classi dirigenti economiche al prestigio di una comunità. Questa resta l’attualità di Agnelli.
Marco Ferrante