GQ, 1 maggio 2016
Era il tipo di persona che avreste potuto incontrare in un corridoio su cui affacciano le stanze degli ospiti in una casa al mare. Lui, altissimo, con un cappellino in testa sormontato da una piccola ma vistosa elica. Cappellino a elica che gli sarebbe servito come joke in un giro di grandi barche durante il week-end caprese, passando da uno yacht americano all’altro. Quando Mario D’Urso è morto un anno fa è stato congedato come una specie di dandy post-litteram, molto buono e molto mondano. Non era solo questo. E’ stato soprattutto una delle persone più divertenti della sua generazione, combinava i privilegi di nascita con le formidabili possibilità che il nuovo occidente globalizzato aveva offerto ai ragazzi di talento. E ne aveva di talento in una disciplina alquanto complessa, competitiva e selettiva: la socialità. Simpatico, brillante, informato. Giuliano Ferrara – maestro di ritratti istantanei – era suo amico e sul Foglio lo commemorò così: “Fu Re dei memorabilia, protagonista di una gallery in bianco e nero delle più squisite, principe della conversazione e gastronomo padrone di casa impeccabile, mediatore allegro e infaticabile lungo il parallelo unico che collega Napoli e New York, stessa latitudine fatale. Passando per Roma, per Torino, per Londra: case reali, vere e presunte, Camelot a strafottere, lobby culturali, amiche e amici pieni di glamour, attici vivaci con vista su Central Park e pranzi, pranzetti, occasioni, giro dei giri, una vita stupenda che non poteva interrompersi per nessuna ragione al mondo, nemmeno per un minuto”.
D’Urso era un napoletano racé, figlio di una Serra di Cassano e di un grande avvocato internazionalista. Era stato di base banchiere d’affari per Lehman, poi deputato, sottosegretario, e soprattutto uomo mondano, amico personale di Marella Agnelli e di sua cognata Suni, di Imelda Marcos, di Margaret d’Inghilterra, cognato di Inés de la Fressange e così via, fino all’interessante e altruistico ruolo di garante dello sbarco nella social life romana di Fausto Bertinotti.
Eravamo entrati in relazione per circostanze varie, tra cui le occasioni del giornalismo e per un progetto abbozzato e mai realizzato di un lavoro a partire dal suo archivio fotografico. Alla fine riuscimmo a concepire un ritratto per un mensile. Il ritratto di Mario d’Urso attraverso dodici foto. La preparazione fu molto macchinosa, tra aneddoti e – appunto – esplorazioni fotografiche. Aveva una raccolta disordinata ma ricchissima. “Quei ritagli non so proprio dove li ho messi, ma adesso li cerco”.
La sua casa era dietro villa Ada, in quella parte della città che sta tra la Salaria e i Parioli, quartieri residenziali della prima metà dell’altro secolo. Le stanze si rincorrono intorno a un giardino, molti tavoli da pranzo, penombra protettiva e già vagamente meridionale.
Il padrone di casa, dinoccolato, sempre cordialissimo, era un conversatore rapido e saltabeccante tra politica, società, fatti della sera prima. Di base riceveva in una specie di veranda con un tavolo rotondo. Colazioni divertenti, a base di amici, giornalisti, qualche Michele di Yugoslavia, o altre celebrità araldiche o del mondo degli affari. E poi visite alla casa in cui si passava indifferentemente dall’elogio del Vicks Vaporub alla ricognizione di un certo cappotto di vigogna bianco (francamente di difficile contestualizzazione – e il possessore del cappotto lo sapeva), riferimenti di passaggio a una certa stanza in fondo dove tanti anni fa aveva dormito Giuliana d’Olanda, domande e risposte sulle fotografie. Su una consolle era sistemata la foto di un giardino, negli anni Settanta. Un gruppo di uomini intorno a un muretto, qualcuno seduto, uno steso al sole. Ci sono Eugenio Scalfari, Toti Scialoja, Mario Bassani e Nanni Verusio. La dedica del 1997 dice: “Caro Sandro, questa foto è molto antica: una Pasqua del 1973 (o 1974) passata nella tua bella casa di mare con pochi e cari amici: noi due giochiamo a scacchi”. La firma è di Scalfari, Sandro è Sandro D’Urso, padre del padrone di casa. Aveva una forma di riserbo per questo scatto, chissà perché.
Le foto più celebri dell’archivio sono quelle del grande ballo a palazzo Serra a Napoli, il 3 settembre 1960, raccolte in un libro pubblicato qualche anno fa da Electa “1960, l’anno dei re a Napoli”. I Serra invitano milleduecento persone. Il servizio prevede trenta valletti in polpe e cinquanta camerieri. Presenti il re e la regina di Grecia, i re di Spagna, i re di Svezia, la famiglia reale d'Olanda. Ci sono le regate olimpiche e alcuni dei ragazzi reali sono in gara. Nella mitografia sociale di un paese in piena stagione di evoluzione – in cui sta maturando la definitiva ascesa della regalità sostitutiva agnelliana – diventa il ballo dei re. È probabilmente l’ultimo grande evento sociale del secolo italiano che culmina nel decennio ’50 e che era cominciato dieci anni prima con il ballo Bistegui a Palazzo Lavia. Dai Serra c’è anche Maria Callas, accompagnata da Onassis, vestita d’arancio. “Il giorno dopo ce ne andammo a Capri, poi a Roma” ricordava D'Urso. Con la regina d’Olanda resterà un’amicizia per tutta la vita.
Due anni dopo arriva in Italia Jaqueline Kennedy. I D’Urso vengono coinvolti nell’accoglienza, perché, per via dei rapporti di Sandro, avvocato internazionale, chi viene in Italia passa dalla loro bella casa sulla Costiera. C’è una foto dell’agosto del 1962, Jackie arriva a Fiumicino, per la prima volta da moglie del presidente americano. La accoglie il presidente del consiglio Amintore Fanfani e la prima moglie Biancarosa. Indossa un abito bianco a pois neri, gonna appena sotto al ginocchio e orecchini di perle. Caroline, la figlia dei Kennedy, dà la mano a Fanfani. In alto, a sporgersi dalla balaustra, una folla di curiosi. D'Urso spunta in seconda fila al centro.
Jackie va in vacanza a Ravello. Mario la vede spesso. Una fotografia li ritrae in motoscafo: Mario, il padre, Jackie e sorella. Un'altra a passeggio a Positano. Un'altra ancora a Capri, stretti tra la folla. L'anno successivo il ventitreenne Mario D'Urso va a Washington. Resta due anni, fa un master in diritto comparato e lavora in uno studio legale. Vita mondana in costante ascesa.
Una delle foto più buffe della raccolta risale a vent’anni dopo, ballo Heinz del 1983, per il 75esimo compleanno di H. John Heinz. Le foto scelte dai padroni di casa (quelli del ketchup) vengono montate su una specie di album che imita un giornale, The Illustrated Nonsuchnews. Lo scatto 134 – tra Lady Ann Lambton al 133 e lord Hambelden e lady Anabel Lindsay al 135 – ritrae mr Mario D’Urso, addormentato su una sedia, gambe accavallate, testa reclinata leggermente in avanti (“Ero distrutto, era tardi. Arrivavo dalle Filippine”). Dagli Heinz è andato con la principessa Margaret che è in rosa antico. La regina è in abito turchese.
D’Urso aveva conosciuto Margaret a Roma. Margaret era ospite dell'amica Judy Montagu e di suo marito Milton Gendel, intellettuale, critico d'arte e fotografo americano di origini russe. Gendel aveva fotografato spesso le Sorelle Reali, anche in pose domestiche. Margaret e Mario diventano amici. Lui sarà uno dei pochi italiani invitato regolarmente al ballo della decade, organizzato ogni dieci anni dalla regina d'Inghilterra. La stampa inglese interpreta la relazione come qualcosa più di un’amicizia. D’Urso conservava una foto di lui con la prima pagina del Daily Express. “Margaret and Mario” è il titolo. Si ipotizza un amore e la disapprovazione della regina perché lui è cattolico. Mentre raccontava questa storia sorrideva. “Era un’amicizia quasi a base turistica. Margaret venne in vacanza in Italia per quarantatré anni di seguito. Arrivava puntuale ogni agosto, con un biglietto di classe economica. Da Roma si spostava di volta in volta in Campania, in Sicilia, in Sardegna. Era molto precisa, instancabile, visitava musei, scavi archeologici, monumenti. La scoperta di molti musei la devo a lei”. (C’è uno scatto molto turistico di Gendel che ritrae Lady Margaret in un baretto toscano con sir Harold Acton). Lei teneva un diario e scattava fotografie. I diari delle sue vacanze italiane non sono mai stati pubblicati. Punto di vista di D’Urso: “Ciò detto è vero che le due sorelle non andavano d’accordo, un po’ per l’affaire Townswed, l’uomo che aveva amato e che non aveva potuto sposare per l’opposizione della corona, un po’ perché la regina accentratrice non aveva dato alla sorella minore il governatorato delle Bahamas”.
A metà degli anni 70, le voci di un flirt tra D’Urso e Princess Margaret ebbero una coda piuttosto comica. Il Times pubblicò una lista degli obiettivi dell’Ira, in cui accanto a una serie di personalità inglesi tra cui il duca di Gloucester, cugino della regina, figurava anche D’Urso: “Ricordo che mi chiamò l'ambasciatore inglese a Roma per avvisarmi. Mi preoccupai. Per un periodo non potei andare a Londra, mi tenevano sotto controllo e una volta perquisirono anche la mia auto”. La storia di Mario D’Urso obiettivo dell’Ira divertiva molto Gianni Agnelli.
Altra amicizia internazionale, Imelda Marcos, conosciuta al matrimonio della nipote di Francisco Franco, nel 1970, a Madrid. Va a trovarla a Manila, nelle Filippine. Gli piaceva il lato della donna attivissima: “Non dormiva mai. Si mise in testa di ospitare le riunioni di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale a Manila, dove all'epoca c'era poco più di un albergo. Creò un centro congressi nella baia e convinse le grandi catene a costruire tredici alberghi”. Ma probabilmente la migliore amica di D’Urso era Marella Agnelli, conosciuta a Roma quando sono entrambi ragazzini, vista la prima volta per strada a via Panama, dove lei andava a trovare uno zio. Molti punti di contatto napoletani, molta vita di relazioni e molti amici in comune – Alberto Arbasino, Federico Forquet, eccetera eccetera. Andava tutti gli anni a trovarla a St. Moritz. “Con Marella facevamo una settimana di fitness all'anno. Io, lei e l'allenatore Gunter Traub. Sveglia alle cinque, ginnastica, percorso vita in pineta e bagno nel lago di montagna. Spuntino con bresaola. Alle undici si partiva per una camminata fino alle cinque del pomeriggio. Poi sauna, bagno turco, massaggio. E a letto alle otto”. La rievocazione si concludeva così: “Adesso siamo più meditativi”.
Difficile immaginarlo meditativo, ma ogni tanto lievemente malinconico sì, sempre attento comunque a sciogliere l'ombra fuggevole in festante cordialità. Poi del ritratto delle dodici foto si decise di non farne più niente, non ne era del tutto convinto. Tutte le volte che capitava d'incontrarlo arrivava sempre un piccolo sorriso di rimprovero per non aver tratto dal suo archivio e dai suoi ricordi un lavoro più corposo. Ma era solo un attimo e tornava cordiale. E a volte irresistibile con le sneakers colorate sotto un gessato.
Marco Ferrante