Pubblicato ne “Il Renzi” (Editori Riuniti) – libro collettivo sul presidente del consiglio, insediatosi appena tre mesi prima – curato da Mario Lavia.
Maggio 2014
Nella fulminante ascesa di Matteo Renzi che posto hanno avuto le èlites economiche, gli ottimati, le classi dirigenti eredi del vecchio sapere di governo della realtà e dell’arte del power broker? Molto meno di quanto la campagna anti-renziana alla Piero Pelù – la costruzione di un avversario catturato da massoneria, poteri forti, interessi economici – possano lasciare immaginare. Innanzitutto ai tempi di Matteo Renzi i poteri forti di quaranta, trenta e persino vent’anni fa non esistono più. La verticale crisi delle classi dirigenti italiane (concausa della crisi generale in cui versa il paese) ha travolto anche quei poteri. Non esiste più una grande impresa privata capace di condizionare le scelte della politica e della società. La Fiat ha scelto con Sergio Marchionne la strada della completa internazionalizzazione e della rinuncia al rapporto di scambio con il governo. Carlo De Benedetti, editore influente (e benevolo sostenitore del renzismo), non rappresenta più interessi industriali all’altezza delle sue origini, l’impero Fininvest ha sostanzialmente scelto la via della politica, non c’è più la Montedison, la Parmalat è francese, le banche si sono indebolite a causa della grande crisi del 2007. È tramontata nella febbrile e incostante stagione degli anni Zero la scommessa di una iniezione di freschezza nel capitalismo italiano: i capitani coraggiosi, la disastrosa avventura della Telecom privatizzata male e impoverita dal suo debito, i tentativi velleitari dei new comers, l’incredibile pasticcio delle scalate bancarie con la cruentissima guerra del 2005 (l’ultima grande guerra finanziaria italiana). Quello che resta sono alcune famiglie molto solide come i Benetton o i Caltagirone, un pugno di multinazionali tascabili (la Luxottica di Del Vecchio, la Mapei di Squinzi, la Ferrero) e alcune eccellenze del made in Italy, Della Valle, Tecnogym, Diesel.
In realtà i veri poteri – forti e meno forti – politicamente attivi sono ormai altrove. Nell’alta burocrazia (magistratura compresa), nel blocco degli interessi corporativi e sindacali, nella galassia dell’economia pubblica: fatta di 7.000 aziende locali, e della grande impresa controllata o partecipata, dalle Poste a Terna. A parte la Fiat, per dimensioni la grande impresa italiana è fatta di Eni, Enel e Finmeccanica. Le centinaia di controllate del ministero del Tesoro valgono circa 500.000 addetti e hanno un peso sull’economia che si aggira attorno al 10 per cento del pil.
Come si è mosso finora Matteo Renzi in questo quadro in evoluzione? Intanto bisogna partire dalla natura del renzismo nella sua fase iniziale. Renzi ha 39 anni, e la rete di relazioni partita con l’operazione Genio Fiorentino, una rassegna di eventi culturali nata quando era presidente della provincia, ha meno di dieci anni d’età. Quindi, una rete tutta in formazione. I suoi rapporti sono costruiti fondamentalmente intorno a quattro direttrici.
La prima, Firenze e l’esperienza fiorentina; tutti i rapporti iniziali della costruzione della sua leadership nel sistema di potere si muove a partire da Firenze e dall’esperienza di presidente della provincia prima e soprattutto di sindaco poi. Dal rapporto con Diego Della Valle, Oscar Farinetti o Vincenzo Manes, capo di Intek che rilevò il rame dagli Orlando, fino a quello con l’ex comandante dei vigili urbani fiorentini Antonella Manzione, passando per Alberto Bianchi – vedremo dopo. Persino l’alterna relazione con Sergio Marchionne passa da Firenze: “il sindaco di una città piccola e povera”, dice polemicamente l’a.d. della Fiat nel momento più basso della loro simpatia. Poi il rapporto è stato ricucito.
La seconda direttrice è caratteriale. Renzi è un outsider – “sono di Rignano” – e vive una naturale empatia nei confronti degli outsider: Della Valle, Davide Serra, tutti quelli che cercano di scardinare il sistema con un piede dentro e uno fuori, come ha fatto lui nella scalata al Pd e nella spallata al quadro politico. Terza direttrice: la tattica. Renzi ha un istinto tattico, ed è sempre molto in movimento. Per esempio, il rapporto con Maurizio Landini, il leader della Fiom, si spiega solo in una chiave tattica. Obiettivo strategico l’indebolimento del sindacato frenatore, la Cgil conservatrice e poco al passo con le trasformazioni in atto nel mondo reale guidata da Susanna Camusso. Poco convincenti al riguardo le critiche mosse da alcuni sull’obiettivo di azzerare i corpi intermedi, tra cui il sindacato, come luogo politico della iper-mediazione. Nella visione pragmatica – che è anche generazionale – di chi si muove in un terreno post-ideologico – e non si parla solo di Renzi cioè – il sindacato non è portatore di interessi generali, ma di una somma di interessi corporativi (a partire da quello degli inclusi), tende – a volte anche inintenzionalmente – ad alzare barriere, ed è stato protagonista di una modalità di partecipazione alle decisioni politiche, la concertazione, legata a un’altra fase storica, che ne esaltò il carattere vischioso ed esasperatamente negoziale.
Quarta direttrice, la più esplicita e caratterizzante, la rottamazione. Renzi deve il suo successo alla liquidazione della classe dirigente del suo partito. Il rottamatore è ovviamente consapevole di essere a volte costretto a rottamare. È stata questa la strada scelta per le nomine nelle grandi partecipate. Azzeramento e completo avvicendamento dei vertici. Il caso che ha fatto più scalpore è quello dello scontro che ha portato alla sostituzione di Paolo Scaroni, il più potente e strutturato dei manager pubblici della sua generazione. Per tre anni capo dell’Enel e per nove anni capo dell’Eni, la maggiore azienda italiana, e quella con più identità insieme alla Fiat. Scaroni è stato – come Conti all’Enel – un buon capo azienda, ma simbolicamente è stato lo scalpo utilizzato da Renzi per dare un segnale di discontinuità, anche rispetto alla politica estera, tenuto conto che la politica energetica italiana veniva considerata vicina a quella russa.
Renzi ha una formazione in cui c’è una sensibilità americana (da Kennedy a Obama, da “Happy Days” a “House of Cards”, la fortunata serie tv sul potere che vorrebbe far studiare ai dirigenti del Pd). C’è sicuramente un elemento generazionale, ma anche qui la questione fiorentina ha un suo peso. Non solo perché il newyorkese Henry James assegna a Firenze il delicato compito di suscitare la commozione artistica dei suoi eroi: per esempio Isabel Archer che vede negli altri le fisionomie dei ritratti ammirati agli Uffizi. L’americanità è molto presente in città. Ci sono gli insediamenti delle università americane (Georgetown, Syracuse, New York University, eccetera), un’associazione di amici americani di Firenze, Friends of Florence, e un influente consolato degli Stati Uniti. Renzi ha ottime relazioni con il mondo americano, sin dai tempi dei primi contatti col consolato generale. È Carlo De Benedetti – al di sopra di ogni sospetto, in quanto sostenitore – a dire in un’occasione pubblica, a Dogliani, che nella mancata tassazione degli utili realizzati in Italia da Amazon, Google e Facebook, Renzi si è fatto consigliare dall’ambasciata americana.
Secondo gli osservatori, la questione Eni rientra in una dimensione di riposizionamento internazionale. Ed è lui, il neo-presidente del consiglio, a dire con ostentato candore a Lilli Gruber in un’intervista a Otto e mezzo, “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”.
Il pacchetto nomine è interessante per fare il primo punto sulla tecnica di gestione del potere del presidente del consiglio. Doveva sostituire un gruppo di persone con una reputazione manageriale positiva, ma che era lì da quasi dieci, anni, nominato da Berlusconi, e con un’età media superiore ai sessanta, eccetto Alessandro Pansa, a.d. uscente di Finmeccanica, insediatosi da solo un anno. Il tutto in un clima di tensione politica dovuto all’occhiuta guardia del M5S. Senza giudicare la qualità delle sostituzioni – la verificheremo negli anni – Renzi ha trovato un suo metodo. Per non rischiare troppo, i due capi operativi delle principali partecipate sono stati sostituti nella continuità aziendale: Claudio De Scalzi all’Eni e Francesco Starace all’Enel. Anche alle Ferrovie continuità con la nomina di Michele Mario Elia di provenienza interna, al posto di Mauro Moretti che, nuovo uomo forte nell’economia pubblica, va a fare il capo azienda in Finmeccanica: dove invece – unica eccezione – la continuità è assicurata dal presidente, Gianni De Gennaro. Nei cda vengono nominati alcuni uomini di estrazione partitica e un pugno di persone direttamente riconducibili al mondo renziano o personalmente scelte da lui. Sono: all’Eni Diva Moriani, amministratrice del gruppo Intek di Manes e Luigi Zingales; in Finmeccanica Fabrizio Landi; alle Poste Elisabetta Fabbri e Antonio Campo Dall’Orto, manager televisivo molto stimato e leopoldino della prim’ora; in Enel Alberto Bianchi, un avvocato in ottimi rapporti ancora con Vincenzo Manes e con Marco Carrai. Quest’ultimo è una figura centrale nel mondo renziano: cattolico, grande amico del neo presidente del consiglio, tessitore di relazioni internazionali in America e in Israele, esploratore nella classe dirigente economica quando Renzi ha fatto il sindaco (ne troverete ampie tracce in due libri appena usciti che descrivono il mondo renziano, “Le catene della sinistra” di Claudio Cerasa e “The boy” di David Allegranti). Quanto a Bianchi, ha un curriculum interessante. Il suo studio legale rilevò la liquidazione di Efim dallo studio Predieri, dopo la scomparsa di Alberto Predieri, di cui Bianchi stesso era stato il numero due. Poi dette una mano a Renzi nella sua prima operazione politica, la Leopolda, gestita dalla fondazione Bing Bang dove ha ricoperto le cariche di presidente e tesoriere, cioè custode del flusso di finanziamenti che hanno sostenuto l’ascesa dell’ex sindaco. Secondo alcuni osservatori, l’avvocato sessantenne è uno dei simboli di questa fase. La sua fotografia con Maria Elena Boschi, lui in smoking a un petto e colletto ribattuto, lei in rosso, alla prima del Maggio Fiorentino 2014, è un’emblematica istantanea del nuovo corso.
Le nomine vivono di un altro elemento, tipico del renzismo, il colpaccio mediatico: i presidenti dei cda sono in stragrande maggioranza donne. Scelta imposta dal presidente del consiglio, che lo libera dall’obbligo dei condizionamenti e gli consente di buttarla un po’ in politica: altro che quote rosa! È la stessa scelta fatta con i ministri e con le cinque capolista per le europee. Non a tutti piace l’uso della questione femminile (terreno estremamente sdrucciolevole nei tempi moderni), ma Renzi crede in questo investimento come fattore di consenso. E i risultati elettorali gli hanno dato ragione.
In generale, gli osservatori più neutrali convergono su una valutazione. Se accantoniamo la dialettica con la Confindustria – istituzione cui rimprovera di essere l’altro lato del vecchio apparato concertativo, cioè lo specchio del sindacato – nel complesso, nei sei mesi che lo hanno portato dalle primarie a palazzo Chigi, Renzi ha goduto di un generale interesse da parte delle forze in campo nel sistema dei poteri, soprattutto economici. Stretti tra il fallimento dell’esperienza berlusconiana e la minaccia dell’avanzata di Grillo, hanno accolto Renzi anche con un certo ammirato stupore per la rapidità, per il successo ottenuto alle primarie, per il messaggio di modernizzazione all’inglese del centro-sinistra. E lo hanno sostenuto alle europee.
In fondo la simpatia istintiva che Berlusconi nutre per Renzi non è solo personale e politica, riguarda la metà imprenditoriale della berlusconità.
Così, nella sua scalata il capo del governo non ha subito alcun vero potere di blocco, diciamo così, e al tempo stesso è riuscito a resistere ai tentativi di condizionamento. Soprattutto nella fase delle nomine. I partiti e quelle porzioni sempre più fragili di essi in grado di esercitare pressioni e di imporre tentativi di rete, hanno avuto una influenza limitata. Idem per i gruppi di potere che erano stati tradizionalmente protagonisti iper-attivi dei pacchetti di incarichi pubblici (per esempio il mondo che faceva riferimento a Gianni Letta o la rete del sistema bancario, anch’essa in una fase di ricambio, e che sembrava avere un rapporto naturale con Enrico Letta). Resta naturalmente da capire quanta influenza reale ha avuto e saprà avere il mondo fiorentino che ruota attorno a Carrai, l’unico – secondo chi li conosce – che finora ha potuto contare su un rapporto semi-paritario con il capo, dunque snodo sensibile, e anche già bersaglio della prima campagna di stampa anti-Renzi.
Un discorso a parte merita la contrapposizione con l’alta burocrazia pubblica, sostanziale potere forte di questi vent’anni di politica debole. Renzi ha studiato i due precedenti più interessanti nell’ascesa al potere di grandi leader carnali nei regimi democratici contemporanei. Sono i due casi inglesi, Margaret Thatcher e vent’anni dopo Tony Blair. L’esperienza Blair è molto formativa. Blair selezionò in anticipo, prima di arrivare al potere, il personale disponibile a riformare il Civil Service. Si dice che attraverso i suoi uomini Renzi abbia cercato di realizzare un simile sondaggio, ma i tempi del suo arrivo a palazzo Chigi sono stati anticipati, e quella selezione è rimasta solo un abbozzo. Certo è che nella visione renziana il potere apparentemente neutro dell’amministrazione è il principale ostacolo allo svolgimento delle decisioni politiche. Nel giorno del consiglio dei ministri in cui illustrò il provvedimento degli ottanta euro, una slide era dedicata alla riforma dei Tar. È anche questo un retaggio fiorentino, l’esperienza di un sindaco che ha patito impugnative, gravami e annullamenti (stesso dicasi per l’annuncio di riforma delle funzioni dei segretari comunali). La riforma della giustizia amministrativa e lo stop al potere d’interdizione di Tar e Consiglio di Stato è un obiettivo primario. La nomina di Antonella Manzione a capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi è un atto di sfida, contro cui i poteri costituiti sull’asse Corte dei Conti – Consiglio di Stato si sono subito fatti vivi, incassando una sconfitta.
Il due febbraio, tre settimane prima dell’insediamento a palazzo Chigi del nuovo esecutivo, il futuro sottosegretario alla pubblica amministrazione Angelo Rughetti, ex segretario generale dell’Anci e braccio destro di Graziano Delrio, rispondendo a un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, scrive una lettera al Corriere della Sera in cui si esplicita la posizione culturale del renzismo amministrativo, con una chiara indicazione del nemico da sconfiggere: quella “forte alleanza tra potere ministeriale-giudiziario e corporazioni per il mantenimento dei privilegi. Oggi alla politica rilegittimata dalla fiducia dei cittadini, spetta il compito di ripristinare il corretto equilibrio tra decisione, applicazione e giudizio su corretta applicazione (n.d.r. della legge)… (…). Il magistrato faccia il magistrato e valuti l’applicazione della legge e abbandoni i luoghi della gestione; chi ha scelto la strada della terzietà e dell’indipendenza non vada nell’amministrazione”. E in effetti per la prima volta, non sono presenti nello staff della presidenza del Consiglio membri della massima magistratura amministrativa. E nell’intera compagine di governo c’è un solo consigliere di stato in posizione di potere reale, Roberto Garòfoli, capo di gabinetto del ministero dell’Economia. Mentre, nell’esecutivo Renzi e nel Pd cresce il partito che proviene dall’esperienza dell’Anci e delle sindacature. Da Delrio a Guerini a Rughetti. Come se l’operazione di presa del potere – notano quà e là alcuni studiosi della prassi renziana in formazione – passasse per il rafforzamento del partito dei sindaci, il vero corpo intermedio su cui conta Renzi. Vedremo.
Fino a questo momento il renzismo è stato cultura di rottamazione, improvvisa, sferzante e costretta alla rapidità. Ma non è ancora un centro di comando, un sistema di relazioni e di rapporti tale da imporsi in modo durevole sulla realtà. Qualcuno ha sollevato la questione del team, dello staff, della squadra, l’esigenza per un presidente del consiglio di rafforzare intorno a sé un gruppo stabile. Difficile giudicare questo aspetto. Le cose hanno bisogno del loro tempo. Sembra altrettanto importante un altro elemento della costruzione di una leadership duratura capace di riformare una società in crisi. Finora Renzi ha spiegato che cosa non gli piace del suo paese, quali sono gli ostacoli e i freni che vanno eliminati e ha individuato i portatori di conservazione.
Per questo approccio ha incontrato una preventiva disponibilità del mondo economico, che lo considera una specie di ultima chance del sistema politico. Ora – forte del consenso senza precedenti incassato alle europee – ha bisogno di esplicitare più chiaramente il futuro che immagina per il paese, anche in termini di sviluppo dell’economia (manifattura, ricerca, manutenzione del patrimonio, turismo, perimetro dello stato, livello di tassazione, eccetera). È ciò che Berlusconi non ha saputo fare e che al centrosinistra post-comunista e post-democristiano è mancato per le pressioni esercitate dai suoi stakeholders. Se Renzi ce la farà, potrà aggregare intorno al suo progetto un blocco di interessi e di potere che sappia reggere la fatica necessaria a portare a termine i cambiamenti, e in grado di diventare un blocco stabilmente forte, perché forgiato dalla battaglia.
di Marco Ferrante