Il Riformista, 31 marzo 2009
La scorsa settimana un fogliettone di prima pagina del China Daily, il giornale ufficiale in lingua inglese, dava conto di una notizia teatrale.
A Shangai sta per andare in scena un musical intitolato “Das Kapital”. Si tratta – pare – di una specie di Rashomon marxista: la reazione di un gruppo di colleghi di ufficio di fronte allo sfruttamento del capo. Il regista He Nian ha raccontato al quotidiano che quando va a cena fuori con gente che fa lavori normali, i suoi commensali parlano solo di riduzione di budget e di licenziamenti. Nel frattempo – a prescindere dal Rashomon marxista – la Banca mondiale, che pure ha rivisto al ribasso le stime di crescita della Cina per il 2009 a +6,5 per cento, parla di Pechino come di una nota positiva, nella fosca situazione dell’economia globale. In che condizioni si presenta la Cina all’appuntamento del G20 di domani?
Le cifre sono quelle descritte dal Fondo monetario internazionale nella sua ultima ricognizione. La crescita del 2008 è stata del 9 per cento contro il 13 per cento del 2007, con una media nel periodo 2003-2007 dell’11 per cento. Le previsioni del 2009 parlano di un andamento compreso tra il 6,9 per cento (secondo il Fmi) e il 6 per cento (l’Economist), la Banca mondiale sta in mezzo. Il Pil è di 4.200 miliardi di dollari, più del doppio dell’Italia, un terzo di quello americano. Secondo l’ufficio studi dell’Economist nei prossimi cinque anni la crescita media annua sarà ancora sostenuta, +7,8 per cento, e l’aumento di domanda interna e i programmi di spesa pubblica compenseranno il rallentamento nel ritmo delle esportazioni. Pechino ha riserve valutarie per 2.000 miliardi di dollari e un sistema bancario per ora immune dalla crisi innescata dai subprime.
Alla moneta sarà chiesta una rivalutazione e questo determinerà un aspetto dei rapporti con gli Stati Uniti, che comprano beni in Cina e vendono ai cinesi debito pubblico. Una doppia catena che lega le due grandi potenze del nuovo secolo, e che già si chiama G2.
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Quello che si vede, sta – però – oltre le cifre, in una sensazione che è ancora espansiva. Negli ultimi cinque anni, la Cina ha corso senza fiato. La capitale, Pechino, ha subito una accelerazione bruciante. Sono quasi scomparsi gli hutong, i vicoli della città imperiale, su cui è nata una città nuova, sradicata dal passato, eppure con una sua giganteggiante personalità. L’aeroporto olimpico con le colonne rosse; il Bird nest, lo stadio di Herzog & De Meron; una installazione gigantesca di Qiu Zhijie in un capannone di 4.000 metri quadri al 798, un enorme comprensorio industriale destinato - in una forzosa riconversione - a quartiere degli artisti; la piscina del Grand Hyatt, lunga 55 metri, per mille e cinquecento metri quadri di ambiente tropicale superkitsch ricostruito nel sotterraneo di un albergo a 15 minuti a piedi dalla Tien An Men, sul viale della Pace celeste (del resto non è la prima magia cinese degli Hyatt: a Shangai c’è lo stupefacente ventre cavo del grattacielo Jin Mao, che diventa una hall alta oltre 100 metri).
Pechino è un manifesto del cambiamento. Non solo per l’architettura. Ci sono molti occidentali per strada (anche se quest’anno i turisti stranieri sono in calo), interi quartieri sono diventati puliti, non si sputa (sic) più per terra, effetto di una campagna di severa sensibilizzazione, e i taxi non sono più sporchi e maleodoranti come solo cinque anni fa. Seduto in un bar del quartiere 798, guardi la gente che passa dietro una vetrata, e ti accorgi di non essere più dentro una storia post-comunista, non solo soldati con le uniformi verde smeraldo opaco, né solo oggetti neo-pop della propaganda
della rivoluzione culturale, le ceramiche con le scene di rieducazione e le stoviglie con la faccia di Zhu En Lai. L’estetica pubblica va avanti. Mao è diventato un semidio, un eroe morto, e gli artisti della nuova Cina stanno scavalcando l’ingenua iconografia del pop asiatico e la fase successiva dell’iper-realismo. Al posto di quell’atmosfera c’è una cosa nuova a metà strada tra un Blade Runner meno fumoso ma altrettanto inquinato e gli spot della Bmw, dell’Audi, dell’Adidas, o della Nike. C’è contemporaneamente molto nitore nelle linee, come nelle bandiere rosse che qua e là garriscono davanti ai palazzi di vetro e acciaio, le quali non hanno più alcun legame estetico con il comunismo, hanno vita separata, sembrano più che altro una fotografia alquanto patinata della grandezza cinese. C’è anche qualche piccola reminiscenza degli anni ’90, cioè sprazzi di informalità. E poi una spruzzata di stilizzazione italiana (soprattutto nelle griffe) o la classicità internazionale degli anni cinquanta, immancabile, negli arredi dei grandi alberghi oppure semplicemente in giro qua e là: per esempio, in un negozio al 798 dove tutti i prodotti della Vitra – tra cui l’anarchico Freedom sofa disegnato da Isamu Noguchi – sono montati di caposotto su piattaforme d’acciaio sospese al soffitto. C’è infine qualcosa che assomiglia ai Gormiti, piccoli mostri che piacciono ai bambini. È puro fusionismo. The Opposite House è un albergo, con tre bar e un ristorante alla moda che frulla le suggestioni della supermodernità. È un prisma di plastica, losanghe in varie gradazioni di verde che servono da vetri e da mura. Si entra nel prisma dove si apre l’interno di un parallelepipedo, su cui si affacciano le stanze. In mezzo al parallelepipedo sono appesi grandi veli di organza che cadono da 20 metri di altezza. In fondo, entrando, c’è una parete di vetro spiovente come se fosse una serra, sotto si intravede una piscina. La città è diventata un tale concentrato di ricchezza che, dietro il viale della Pace celeste, c’è un grande cartellone murario che pubblicizza la Bugatti Veyron, 1.000 cavalli, 400 chilometri all’ora, prezzo 1,5 milioni di
euro. Tutte queste repentine trasformazioni in meno di dieci anni non hanno, almeno apparentemente, modificato un’attitudine pubblica alla disciplina. La gente è ordinata. Molti continuano a indossare divise o uniformi, a essere rigorosamente gerarchici anche in una fase di apertura del paese (a ridosso del ventesimo anniversario della Tien An Men), di scoperta del mercato, di maggiori possibilità personali.
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Yiwu, 300 chilometri da Shangai, è come un supermercato globale. È il più grande mercato al mondo di piccole merci, di articoli minuti. Un catalogo fatto di un milione e settecentomila articoli. La zona in cui si concentrano le vendite è un complesso immobiliare lungo oltre un chilometro e mezzo. Ospita oltre 40.000 rivenditori, ognuno dei quali espone in un box di 14 metri quadri. A comprare vengono gli europei, ma soprattutto commercianti caucasici, iraniani, arabi, magrebini, sudamericani. Nei box si vende di tutto, è un paradiso della catalogazione. Ci sono collane, bracciali, ali per principesse, elicotteri elettrici che volano a partire da un prezzo di due euro, pinze per capelli a forma di cuore, di fiore, di stella, di coniglio, chiusure lampo in pezze da 20 metri, piccole automobili a gettone per bambini (quelle che si trovano davanti ai bar) da 100 dollari, targhette che riproducono i marchi (vere e finte), specchi (l’infinito mondo dello specchio), spazzole, cavigliere, narghilé, matrioske, unghie finte, e asciugatori di unghie dei piedi (sono piccoli fornetti elettrici in cui si infilano le dita), ci sono pulcinella, presepi, Barbie velate per bambine musulmane, palle di vetro di quelle con la neve, marabù, occhi magici che comprerete d’estate in Turchia, finte giade, mappamondi retroilluminati con il mare colorato di rosso, e con – al posto degli stati –
una fantasia di fiori; candelieri di cristallo moderni, penne di tutti i tipi compresa quella con una piccola mappa incorporata, accessori per la danza del ventre, anelli, ganci, asole, catene e fili per la fabbricazione di bigiotteria, bamboo finti, zucche giganti finte, frutta finta e frutta fredda finta con la magistrale riproduzione dell’effetto brina da ghiacciaia, di cui resta misterioso l’uso.
I prezzi sono estremamente bassi, alla portata di un commerciante persiano. Una buona parte di quello che riteniamo essere l’artigianato locale in giro per il mondo viene venduto qui. Alcuni degli articoli vengono prodotti altrove, verso l’interno, e qui assemblati; altri vengono da fabbriche nei dintorni. Non è facile spiegare esattamente la questione del prezzo. Un esempio: in teoria uno zaino da scuola per ragazzi qui può costare meno di un euro come prezzo alla produzione, e – se messo sul mercato con un marchio forte – può essere proposto ai consumatori europei con un prezzo finale anche di 40 euro. Il costo unitario alla produzione dipende dal costo del lavoro, ma ovviamente anche dalla qualità dei materiali e dalla quantità della merce prodotta. Secondo alcuni operatori, considerando le oscillazioni del cambio e i costi di trasporto e di importazione, questo significa che è probabile che alcune produzioni automaticamente assegnate dal mercato alla Cina per fatto inerziale, siano state abbandonate troppo presto dagli europei. Se una scarpa da ginnastica può costare un euro, lo stipendio di un supervisore locale della produzione si aggira sui trecento dollari al mese.
Ecco una cena in un ristorante di qualità medio alta per gli standard del posto. Due piani: al primo la sala e appena davanti all’ingresso le vasche di plastica con i pesci, i granchi, le razze, i serpenti, i gamberi; al piano di sopra le salette, piccole stanze, come d’appartamento, con un tavolo tondo e sei o otto sedie imbottite, luce al neon e faretti (ai cinesi piace la stanza riservata). Dieci portate che constano di due verdure, un maiale con alghe fritte e peperoni, un'insalata di
bamboo, gamberi allo spiedo, conchiglie di mare bollite allo zenzero, pizza cinese (una specie), lingua di maiale, noodles di pollo, zuppa d’anatra (un’anatra) = 350 reminbì, circa 40 euro, 6,6 euro a testa.
Yiwo è ancora una città orientale come ci immaginiamo che debba essere. Disordinata, con i risciò, molte bici, i tricicli, le motociclette senza casco, traffico in senso vietato, botteghe e negozietti affacciati sulla strada, i bambini sotto i tre anni che non portano panni, ma tute imbottite con uno spacco sotto il cavallo, da cui spuntano i piccoli glutei nudi. È una media città cinese, nella classifica delle prime cento. Eppure quando entri nel bar dell’hotel Kingdom, uno degli alberghi dove pernottano i commercianti, si ha la strana percezione che possa diventare uno di quei posti sul genere di Radiator Springs, la città semi-abbandonata di Cars, il cartone animato della Disney. Che basti un evento esterno, un cambiamento, la nascita altrove di un luogo più conveniente per fare affari, per essere ricacciata in una banale dimensione di urbanità diffusa, così come tanti centri nella regione. Per ora esiste, ed è un concentrato di paccottiglia globale.
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Sono tre le questioni principali che la Grande Recessione pone da queste parti. Quali sono realmente gli effetti della crisi sulla Cina? Quale sarà il destino della collaborazione con gli Stati Uniti? E, infine, al tempo della crisi, il mondo simbolico di Yiwu ha ancora senso e per quanto? Gli effetti della crisi sull’economia reale per il momento sono difficili da valutare. A Yiwu sembra che le cose non siano cambiate rispetto agli anni scorsi, nessuno si lamenta, e gli alberghi per ora sono pieni di commercianti. A Shenzen, la grande città industriale e commerciale nata a ridosso di Hong Kong, gli imprenditori guardano il loro settore, e tendono a trascurare il fatto che i dati macroeconomici dicono che la crescita è rallentata. A Pechino è finito l’effetto boost delle
Olimpiadi, i grandi investitori diminuiscono, i visitatori stranieri pure, tanto che nei mercatini più turistici, i venditori sono quasi asfissianti.
In generale le difficoltà per l’economia si sentono nelle città costiere, colpite dal calo delle esportazioni e dai profitti in calo delle grandi imprese. Le cose tengono nei paesi dell’interno, anche a causa di un programma di investimenti pubblici, da 590 miliardi di dollari.
Anche qui ci si interroga sul destino del ceto medio, della borghesia (concetto, peraltro reso particolarmente difficile sia da un problema epistemologico – la borghesia è un’idea non contemplata dal linguaggio – sia da un problema storico: il Novecento ha distrutto tutto: il comunismo, prima; la rivoluzione culturale poi). Il dibattito si svolge esattamente come da noi: con la crisi chi vince e chi perde? Il China Daily ha fatto un’inchiesta da cui risulta che la classe media accusa il colpo. I colletti bianchi cercano il doppio lavoro. Un impiegato di Yongkang nello Zhejiang, la provincia orientale costiera sotto Shangai, racconta di aver accettato di vendere fiori e lanterne in un mercato notturno per 150 dollari al mese. Un sondaggio dice che per il 70 per cento degli intervistati la crisi ha colpito gravemente l’equilibrio psicologico.
Le cose cambiano nei paesi dell’interno e nel quadrante sudoccidentale del paese, dove l’economia è governata dalla certezza dell’impiego pubblico o parastatale. Li Hong, dipendente pubblica di Liuyang - nello Hunan, a sud est del Tibet - ha uno stipendio di circa 120 euro al mese (decuplicato in dieci anni) e un bonus di fine anno di 2.400. Ha venduto due appartamenti in città e ha comprato una villetta per 70.000 euro dove vive anche con i suoi genitori. Il reddito medio annuo procapite va dai circa 3.000 euro di Shangai e Shenzen, ai 1.300 di Lanzhou nel cuore interno della Cina. Ma l’economia della costa orientale è più esposta alla globalizzazione e ai venti della Grande Recessione. A sud nel prospero stato del Guandong si discute dell’ipotesi di un
maxiponte a maggio, una «golden week holiday», che dovrebbe servire a irrobustire i consumi. Ma Pechino chiede alle autorità locali di non assumere iniziative e di attenersi alle disposizioni del governo centrale. Nei giorni scorsi è stato uno dei temi appetitosi del South China Morning Post, il più autorevole quotidiano di Hong Kong.
In realtà la situazione è resa complessa dall’enormità dei numeri cinesi. Ogni anno ci sono dieci milioni di persone che si muovono dai piccoli centri e dalle campagne dell’interno. Ogni punto di pil vale un milione di posti di lavoro. Perdere tre punti di pil significa non essere in grado di assorbire tre milioni di disoccupati che vanno a complicare la vita nelle grandi città sul versante orientale. Per questo la Cina è costretta a crescere, a inseguire il pil. Ecco perché il governo investe con un programma di stimoli che compensi con lo sviluppo di un nuovo mercato interno, nelle zone centrali del paese, il calo delle esportazioni. E perché in questa fase chiede all'opinione pubblica di contenere la propensione al risparmio e di tenere alti i consumi. Richiesta che per ora non ha dato i risultati sperati.
La crisi potrebbe condizionare anche il futuro del partito comunista cinese. Secondo il numero di gennaio-febbraio di Foreign Affairs, il calo dell’export, decine di milioni di emigranti interni senza lavoro, milioni di laureati che non trovano impiego, sovracapacità industriale che minaccia la deflazione, quello che era il bollente settore immobiliare ora in picchiata, mettono alla prova la resistenza del partito. Finora la colla del partito comunista era stato il patronato sulla società sottoscritto da un lungo periodo di crescita economica. Il regime ha usato le risorse finanziarie per bilanciare gli interessi interni, soddisfare i differenti gruppi sociali, e ottenere il consenso delle elite. Questo sistema è stato molto costoso. La pubblica amministrazione costa più del 20 per cento del budget di governo, e più del 40 per cento del pil viene da investimenti in immobilizzazioni come fabbriche e depositi, un settore dominato dall’economia
pubblica. Finora le élite non ideologiche cinesi hanno trovato una convivenza d’interessi con il partito, ma non è detto che con la crisi il supporto delle èlite economiche sia garantito. Conclusione, la crisi se dovesse farsi più dura forse non metterà in ginocchio il partito comunista, ma potrebbe determinare le condizioni di conflitto tra le classi dirigenti politiche ed economiche che potrebbe causare cambiamenti nei rapporti di forza.
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Le relazioni con gli Stati Uniti sono estremamente delicate. I fondi cinesi hanno investito 2.000 miliardi di dollari in aziende americane e 1.000 miliardi in titoli del debito pubblico americano. Si tratta di una cifra che si avvicina al 20 per cento del pil americano. Ma gli investitori cinesi non hanno nessun potere sulle imprese che hanno puntellato. Inoltre, appena insediato, il segretario al Tesoro americano Tim Geithner ha chiesto alla Cina la rivalutazione del reminbì, cosa che ha innervosito Pechino, e Barack Obama è intervenuto per una rettifica.
Il caso dello scontro tra Coca-Cola e autorità cinesi per l’acquisizione dell’industria di bevande Huiyuan va inquadrato in questo contesto. L’antitrust cinese ha bloccato l’acquisto della compagnia cinese perché darebbe vita a una concentrazione sul mercato interno giudicata eccessiva. In realtà i cinesi fanno resistenza per rivendicare un principio di reciprocità. Se voi comprate da noi, noi vogliamo contare di più da voi. Per ora le partecipazioni dei fondi sovrani cinesi sono state forme di sostegno politico, costate ai cinesi centinaia di miliardi di dollari in capitalizzazione perduta. Il G20 di questa settimana ci darà una prima indicazione sul mutamento dei rapporti di forza. La Cina ha chiesto più peso nel Fondo Monetario. Attualmente l’Unione europea ha voti pari al 32 per cento, gli Stati Uniti al 17 per cento, Cina 3,7 per cento e India 1,9. Pechino, terza economia mondiale,
vuole riequilibrare la bilancia per irrobustire la posizione dei paesi in via di sviluppo. La stampa governativa insiste molto su questo punto.
Il problema è adesso capire che tipo di relazione si svilupperà tra le due potenze. Sarà tempo di G2, oppure - come dice in un libro un po’ animoso, Il secondo mondo. Imperi e influenza nel nuovo ordine globale (pubblicato in Italia da Fazi, con il titolo I tre imperi), un giovane studioso di reazioni internazionali, l’indiano Parag Khanna - l’America rischia in questo torno di tempo un destino da paese del secondo mondo? Cioè il rischio futuro di declassamento nel ranking geopolitico a una identità in cui peseranno più le debolezze dell’Arkansas o dello Utah delle eccellenze della California e del New Jersey.
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La terza questione riguarda il senso del mondo cinese. La Cina è un paese in cui si concentrano le contraddizioni della modernità in modalità più convulse di quanto abbiamo visto e vediamo in Occidente. Il mondo di cui Yiwu è un simbolo a buon mercato, ha senso? E’ possibile immaginarne un altro? Per cent’anni la Cina ha praticato la sistematica, dolorosa, distruzione di sé e della sua cultura. Scrive uno dei più ascoltati corrispondenti occidentali dalla Cina, Francesco Sisci della Stampa, nella prefazione all’edizione italiana del romanzo Senza parole (Salani, pp 315, euro 16,80), il capolavoro di Zhang Jie: «E’ la tragedia di un popolo che si è detto “comunista” senza esserlo e sapendo di non esserlo; perché questa e altre parole non esistevano, ma sono state tradotte, svuotate della loro tradizione occidentale. “Comunista” era il presente che distruggeva il proprio passato, temendolo come fosse un dio che divora i suoi figli, ma senza avere un’idea precisa, scientifica del porro futuro; era la Cina che correva verso la “modernità” piena di
spavento, senza un piano». La modernità cinese è diventata una riappropriazione della coscienza commerciale, e una lunga corsa verso la ricchezza e il mercato.
Hong Kong non ha subito le interruzioni imposte dalla rivoluzione comunista prima, e dalla assurdità della rivoluzione culturale poi. Hong Kong è la purezza cristallina della seconda metà del Novecento, economia e progresso. Ed è il posto in cui chiunque creda nel mercato, ma per ragioni dialettiche sia contemporaneamente disposto a spogliarsi dell’apparato difensivo che di solito si usa nei confronti dell’anticapitalismo, troverà che è una città dove ha senso vivere soprattutto in relazione all’atto fisico del comprare. Non è un giudizio, è uno stato d’animo. I mall si susseguono uno all’altro lungo una catena di ponti pedonali, di camminatoi sopraelevati rispetto al livello stradale e di sottopassi tra i basamenti dei grattacieli di Central, il cuore della città, in cui ogni angolo di spazio disponibile viene sfruttato. Ogni mall ha un negozio di Prada, di Bulgari di Loro Piana, di Chopard, di Gucci.
Il Four Seasons è nell’Ifc building. Le stanze guardano per metà la baia e, di fronte, la penisola di Kowloon. Su una terrazza sospesa tra i grattacieli ci sono le piscine. Da quella riscaldata durante la mezza stagione, tenuta a una temperatura di 28 gradi, si guarda a pelo d’acqua lo spettacolo della baia. Si osserva il traffico delle navi da crociera che attraccano alle banchine di Kowloon, il traffico dei traghetti che congiungono le rive opposte, dei sanpan che portano i turisti, e dei rimorchiatori che pilotano al largo i portacontainer, quest’anno un po’ più vuoti dell’anno scorso. L’altra metà delle stanze guarda i grattacieli di Central, dove di continuo si buttano giù i vecchi per farne di nuovi, con nuovi mall.
È come se tutto il nostro progresso, tutta la marcia che abbiamo fatto per vivere più comodamente fossero serviti a chiuderci in un gigantesco, bellissimo – e anche sognante – supermercato. E da questi mall, probabilmente, che
dobbiamo partire per costruire un’antropologia della crisi.
di Marco Ferrante