All’inizio del 2001 il Foglio cominciò una campagna senza precedenti nell’editoria italiana in sostegno di un libro. Un solo libro. La versione di Barney di Mordecai Richler. Il libro era uscito nel settembre del 2000, pubblicato da Adelphi, con la traduzione di Matteo Codignola, traduttore, editor, scrittore, alla cui intelligenza e brillantezza noi appassionati dobbiamo - tra l’altro - due imperdibili libri sul tennis. Giuliano Ferrara legge Barney e se ne innamora. Riconosce nel suo anticonformismo e scorrettezza politica una parentela. Un anno prima aveva combattuto la battaglia contro l’Oscar a Benigni. E Richler, ebreo canadese, era un narratore ironico, spigoloso, romantico, cinico – nonché alzaimeriano sul versante Barney – e in piena opposizione antropologica al miele della Miramax di Weinstein del 1999 (per quanto è possibile ipotizzare che per le stesse ragioni 20 anni dopo sarebbe stato di sicuro un difensore dello stesso Weinstein nella guerra del #metoo).
Ferrara investì su Barney e ne venne fuori uno spettacolare caso culturale, letterario e politico. Come ricorda Codignola in un libriccino in ricordo di Mordecai nel decennale della morte il libro passò dalle 10.000 copie del 2000 alle 300.000 del 2001. La redazione e i collaboratori del Foglio furono mobilitati. Fu una cosa talmente divertente, insolita, sorprendente che abbiamo continuato a parlarne. Nel 2010, Christian Rocca ha scritto un lungo reportage canadese, le strade di Barney, in cui ricostruisce il clima di quella buffa storia di propaganda letteraria. Io fui coinvolto come segugio sul campo, in occasione della breve tournée italiana di Richler nel febbraio 2001. All’epoca ero un redattore economico del tg5, ma collaboravo con il Foglio sin dalla sua nascita, e mi ci sarei spostato stabilmente nel 2004. Giuliano F. mi disse che dovevo stare dietro a Richler come un inviato di Rolling Stones con Madonna.
Codignola nel 2011 si ricordò di una serie di spassosi dettagli – “quanti macallan ha bevuto ieri sera?” gli chiesi una mattina – ma ammette che nonostante l’assurdità delle domande non fui invadente. Piccola consolazione del cronista perbene e scettico. A Napoli, detti a Richler la copia del Foglio con le sue gigantografie, una delle quali non ritraeva lui, con mio imbarazzo per Richler e per Giuliano che uscì dall’impaccio con il consueto sorridente umorismo.
Quelli che seguono, leggermente rivisti, sono i tre articoli della tournée e quello di luglio, dopo la morte inaspettata di MR.
1
Napoli. Ci ha pensato Sandra Zavaleta, responsabile dell’ufficio editori di Galassia Gutemberg a organizzare il soggiorno napoletano di mister Mordecai Richler. Una telefonata di Steven, il suo agente, le annunciava che Richler si sarebbe messo in contatto con lei. Pochi giorni dopo, infatti, lo scrittore le ha spedito un fax in cui le chiedeva chiarimenti, garbati, sul fatto che una sudamericana di formazione statunitense vivesse a Napoli. Sandra lo ha subito trovato divertente. Insieme - da lontano - hanno organizzato l’itinerario del lungo week-end e lei è stata molto colpita dalla tenerezza con cui Richler preparava gli spostamenti e le visite: per lui, ma soprattutto per sua moglie Florence, sarebbe stata la prima volta a Napoli. Ama sua moglie con una intensità che in questi giorni ha già suscitato molte invidie tra chi lo ha incontrato. Non soltanto per la iper-sensibilità con cui ci accostiamo ai successi sentimentali degli altri (come quando guardiamo un film, per esempio). E’ che l’amore di Mordecai per sua moglie, la quale a causa di una influenza nessuno ha visto nel corso del week-end, è un po’ il romantico completamento – o il premio – del suo suggestivo fascino personale. Vi contribuiscono senz’altro i lunghi capelli bianchi – alla maniera di Richard Harris in “Un uomo chiamato cavallo” – e un accenno di disinvolta trascuratezza nell’abbigliamento che sembra in contrasto con l’aspetto delle mani, molto curate, pulitissime, con unghie portate alla misura giusta. Questo, riguardo alle sembianze. Perché il pezzo forte del fascino Richler sta nei modi: innanzitutto Mordecai è molto educato e – come si sarebbe detto una volta – compìto, ma senza essere frivolo. E’ un conversatore pacato, un ottimo ascoltatore e si comporta in modo ugualmente amabile con uomini e donne. Cose che colpiscono ancor più se si è reduci dalla lettura di un romanzo scritto in prima persona in cui l’autore veste per quasi 500 pagine i panni di un adorabile selvaggio del livello di Barney. Infine, a completare il quadro, MR è incredibilmente sornione. “Lei è politically uncorrect”, gli dice qualcuno e lui ridacchia come per rispondere “ebbene sì, è una monelleria di mia invenzione”; ridacchia di nuovo, compiaciuto, quando viene citato un punto di vista di Barney, il quale adora leggere quelle biografie dalle quali risulti che il tale grand’uomo sia in effetti una merda. Ma sono risate molto, molto contenute, che avvengono non con la bocca – la muove poco – ma con le guance, utilizzate (grazie a un efficacissimo movimento involontario) come segnalatori di reazioni emotive. Per esempio, le guance Richler restano indifferenti quando una signora coperta da un piumino verde con manicotti e collo di pelliccia in tinta gli si avvicina con un “Barney’s version” tra le mani, gli chiede un autografo; poi gli attacca un breve ma sentito bottone e gli ammolla un biglietto da visita su cui scrive a penna il numero del telefonino e gli dice: “mi chiami domani”. Allora le guance Richler precipitano e si accasciano sul collo della camicia a righe bofonchiando una specie di “senz’altro”, senza tradire alcun sentimento. A dire la verità sembrerebbe non indifferenza mondana, ma uno sperimentato scudo esistenziale. A volte le guance diventano più esplicite, quasi loquaci: si mostrano consenzienti quando il suo romanzo viene presentato come struggente. Si fanno pensose, tutte spaparacchiate sul collo della camicia, quando si cerca di ricostruire eventuali analogie o somiglianze tra Barney e il suo autore.
Qualcuno, tra quelli che sono stati con lui a Napoli durante il fine settimana, temeva che Richler si potesse seccare per la “Barney’s version” del Foglio: “Non importa”, ha detto la sua voce – e le guance hanno confermato – come se la cosa non lo riguardasse, ma si è messo il giornale elefantesco in tasca, ben contento del poster, anche se una delle foto non era la sua, e se lo è portato alla Bersagliera, il ristorante di Borgo marinaro, di fronte ai circoli Italia e Savoia e agli alberghi Vesuvio e Santa Lucia, dove sabato sera – dopo quasi due giorni di alimentazione in bianco a causa di una indisposizione – ha finalmente mangiato spaghetti alle vongole e pasteggiato a scotch. E’ andato via prima degli altri ed è corso da Florence, in albergo con la febbre. La mattina dopo si è svegliato molto presto. Alle otto e trenta era già nella sala dell’hotel Oriente a fare colazione: “Scusatemi, ma ho un po’ di hangover – ha detto, con guance distese, a due visitatori inopportuni – ieri sera ho bevuto troppo scotch”. Florence stava meglio ed era pronto a portarla Capri.
2
Roma. Uno scooterista in perfetta regola – vespone e casco – giunto in prossimità di un semaforo, inchioda il suo mezzo e, rivolto a un signore di circa settant’anni appena sceso da un taxi, esclama: “Barney!!!”. Ora, se sia mai accaduto al professor Tabucchi di esser fermato per strada al grido di “Mio dio, Pereira!”, le cronache non l’hanno mai riportato. Del resto, va detto che mister Mordecai Richler, uomo di spirito e persona seria, ha ammesso che un fatto del genere non gli sia mai capitato neppure in Canada. In Italia, la sua carica di simpatia lo sta precedendo. Quando la nutrita delegazione al suo seguito raggiunge una libreria sull’Appia, Richler viene salutato dal direttore del negozio con queste allusive parole: “Mister Panofsky, I suppose”. Poi il direttore gli porge un regalo, una busta di carta marrone intestata a Barney Panofsky, contenente un sigaro Avana, omaggio ai Montecristo di Barney. Mordecai non ama la sovrapposizione del personaggio all’autore. Ma Barney è davvero travolgente, e Richler, dopotutto, se ne frega: c’è in lui una specie di civile rassegnazione di fronte all’ineluttabile, che costituisce il suo atteggiamento di partenza. Poi ogni volta che l’ineluttabile viene sconfitto dall’opportunità o dal caso MR gioisce: “siamo in anticipo – gli dice uno dei suoi accompagnatori – vuol bere qualcosa?”. “Non speravo che me l’avrebbe chiesto”, ha riso. Si è seduto al tavolino di un bar, sotto una stufa da esterno a forma di fungo, e ha taciuto. Non è un chiacchierone. Parla poco e solo se indispensabile. Sopporta le persone troppo ciarliere e non ha una visione mondana della letteratura. Anche in pubblico dice solo l’essenziale, è misurato e non ama fare concessioni alla popolarità. Anche quando scrive: “All’inizio scrivo per il mio piacere – ha spiegato in questi giorni – e per mia moglie e per i miei amici e dopo anche per un pubblico quanto più vasto possibile, ma non faccio niente per ingraziarmi gli altri. Una volta sono stato così stupido da andare a presentare uno dei miei romanzi, L’apprendistato di Duddy Kravitz, in una comunità ebraica”. Duddy Kravitz è un giovane ebreo di basso ceto, con una voglia matta di emergere, simbolo ben riuscito – dicono – delle idiosincrasie e dei difetti del suo popolo. Talmente ben riuscito che a un certo punto della presentazione un vecchio ebreo si alzò e disse: “Tutto quello che hai scritto di Duddy Kravitz è vero, ma perché non hai dato a questo personaggio un nome italiano?”. Aneddoto che MR trova molto spiritoso e significativo dell’ipocrisia e del conformismo. Rispetto allo sfondo su cui si muovono le sue creature, Richler è uno scrittore che non mente: “un bravo scrittore – dice – è uno che guarda da una finestra dalla quale nessuno ha mai guardato”. Eppure riconosce che, in un certo senso, gli scrittori sono anche dei “bugiardi pagati, gente che tende a fare bella figura”. Deve essere questa convinzione a imporgli di starsene quanto più possibile lontano da Barney e di fare opera di depistaggio. Tiene accesi i suoi Davidoff quasi di continuo, ma sostiene di non bere scotch quanto il suo eroe. “Detesto l’aragosta”, dice Barney; e invece martedì a colazione MR l’ha mangiata. Al contrario di Barney, poi – uomo dai giudizi assai decisi – Mordecai parrebbe persona di formidabile compostezza critica. A chi – giocando su un’espressione di Barney – gli chiedeva quali fossero a suo avviso gli scrittori “giustamente dimenticati”, non ha risposto. E solo più tardi ha fatto dei nomi, dichiarando il suo rispetto per Evelyn Waugh, Henry Green, Saul Bellow, John Cheever e Beryl Bainbridge. Da notare: con un piccolo distinguo per Bellow e Waugh – muniti anche di larga popolarità – questo breve elenco è fatto di scrittori che per qualche profonda ragione tecnica piacciono molto agli scrittori (del resto esistono gli architetti per architetti, i musicisti per musicisti, i pittori per pittori). In questo caso c’è un pizzico di snobismo da connoisseur riguardo alla Bainbridge. E quanto a Henry Green c’è forse anche una concessione – anche qui snobistica – per il talento ipertecnico e alquanto disinvolto di uno che smise di scrivere a 47 anni. Interessante postilla: Roth non è presente nell’elenco, cosa che per i non rothiani è sempre una piccola soddisfazione.
L’unica battuta un po’ salata, pubblicamente pronunciata in questi giorni, ha toccato i suoi rapporti con l’editoria italiana: “Einaudi e Rizzoli hanno comprato i diritti di un paio di miei romanzi, ma non li hanno mai tradotti, forse non li hanno neppure mai letti”. Si tratta di St.Urbain’s Horseman, il cui protagonista, un ebreo canadese che sogna di essere un cacciatore di nazisti rifugiati in Sudamerica, è molto amato da Richler – lo considera molto vicino a sé; e di Solomon Gursky was here, la saga di una grande e potente famiglia ebraica, i cui protagonisti, i Gursky, ritornano in Barney’s version in una delle fasi più belle del romanzo, quando la seconda signora Panofsky rievocando i bei tempi dice al giudice, durante il processo, che al suo matrimonio c’erano “molti Gursky, anche; sa, sono vecchi amici di famiglia”. Attualmente esiste soltanto un altro titolo di Richler pubblicato in Italia da e/o e, per il momento Adelphi, non ne ha comprati altri. Barney’s… ha già venduto in Italia 20.000 copie. In una libreria di largo Chigi, Richler ha firmato e dedicato alcune decine di copie destinate ai lettori, tra cui spiccavano una Patrizia, una Dolores e una Vanessa. Un’altra copia – perfettamente autografata – l’ha presa Roberto, ingegnere, colpito da una frase sulla bandella del romanzo: “…Barney Panofsky, personaggio fuori misura, insofferente di tutto ciò che ottunde la vita”. “Anch’io sono insofferente di ciò che ottunde la vita – ha detto l’ingegnere ai ragazzi che scortavano Mordecai – infatti mi scambiano per architetto”. MR – che di questo ingegnere sovente scambiato per architetto non sapeva nulla – gli ha sorriso porgendogli la copia autografa.
3
Roma. Per uno scrittore il maggior inconveniente di un romanzo in prima persona è il rischio di immediata identificazione tra l’autore e il narratore. Lo abbiamo detto. Mordecai Richler cerca di sfuggire a questo destino, ma tutto è inutile quando compare Florence, sua moglie: archetipo, modello, copia, trasposizione in carne e ossa di Miriam, Miriam Greenberg – terza moglie e grande amore di Barney – di cui qui sopra.
Per la gran parte della settimana italiana dei coniugi Richler, Florence è stata un oscuro misterioso personaggio. Arrivati a Napoli si è ammalata, ed è emersa alle legioni di barneymaniaci soltanto mercoledì sera nel corso della presentazione del romanzo in una libreria alla moda della capitale (starring Mordecai Richler, co-starring Matteo Codignola, il traduttore italiano). Florence era completamente vestita di grigio, un abito fino alla caviglia, una sciarpa goffrata, scarpe nere con para da riposo in gomma e calze a rete di trama molto leggera, portate con disinvoltura ultrachic. I capelli, poi, sono quelli di Miriam, bianchi, con leggere striature di grigio e un’impercettibile sfumatura turchina di altri tempi. Un sorriso molto aperto, denti brillanti dallo smalto ancora forte con una lievissima inclinazione verso l’esterno. Florence è bella, alta, dritta, di gran portamento, è cordiale, gentile e – secondo tutte le testimonianze – spiritosa, intelligente e colta. Farla diventare un romanzo è il minimo. Mordecai va oltre. La adora, non riesce a starle fisicamente lontano e non perde occasione di tributare omaggi anche pubblici alle sue infinite qualità: “Le piace la poesia?”, gli chiedono durante la presentazione. Risposta: “Non leggo molta poesia contemporanea, contrariamente a mia moglie che la ama molto”. In privato aveva esteso il campo della supremazia culturale di Florence, spiegando a due giovani – cui aveva accordato il privilegio di una prima colazione nel suo albergo di Napoli – di come sua moglie amasse molto il teatro, che lui detesta (presumibilmente al modo di Barney, per pregiudizio anti-artistico).
Florence faceva la modella e l’attrice, quando Mordecai Richler, oltre quarant’anni fa, la portò via da Londra, in fuga dalle loro rispettive storie precedenti. E vennero proprio a Roma, dove vissero sei mesi in una casa ai Parioli. Da allora stanno insieme, lei ha lavorato come produttrice televisiva, e lui ha lavorato anche per non farle mancare nulla: “tutto quello che ho guadagnato – dice – l’ho speso in food and drinks”. Hanno cinque figli, lavorano tutti nel mondo della cultura, dell’editoria e della comunicazione. I ragazzi vivono in Canada. Mordecai e Florence se ne stanno sei mesi l’anno in un piccolo appartamento a Londra, nel quartiere di Chelsea, e sei mesi in Canada, in una grande casa sul lago, nei pressi di Montreal, al confine con il Vermont, dove Mordecai tiene una vasta biblioteca.
Florence si è sempre occupata dei figli, del menage familiare e generalmente di tutto quello che Mordecai non è in grado di fare. Per esempio è lei la responsabile della conversazione Richler, vista la naturale indisposizione di Mordecai per l’intrattenimento ciarliero (salvo che non si tratti di una conversazione uno contro uno, davanti a un bicchiere di scotch, unica dimensione ammessa per una chiacchierata). E’ stata lei mercoledì a sostenere il ritmo della conversazione durante una colazione all’ambasciata canadese, quella a porta Latina, un tempo – ha ricordato Florence – residenza romana di Dino Grandi. Colazione molto riuscita, stando a Florence: perché a Mordecai l’ambasciatore è stato simpatico.
A completare il profilo di donna perfetta, Florence è anche discreta, amorevole, e molto protegge suo marito dalle insidie della sua timidezza: MR ama la vita tranquilla, passeggiare, bere uno o due drinks prima di cena, vedere pochi amici. E, di base, tende a evitare il rapporto con il pubblico, che – viceversa – lo ricambia di premure. La ragione del suo successo affettivo? Secondo Florence, la quale ammette di sfidare la retorica, “Mordecai è una persona priva di finzioni e la gente lo capisce, lo trova spontaneo”. Ha raccontato che una volta suo marito ha vinto un Commonwealth Price, ricevendolo dalle mani della Regina, con la quale si intrattenne a conversare con ammirevole naturalezza, come vecchi amici. Ecco perché Florence non si è meravigliata mercoledì sera, quando il direttore di un piccolo giornale, Giuliano, recatosi (ha detto lui stesso) in intimidito ossequio da MR ha scherzosamente annunciato l’intenzione di voler aggiungere alla sua testata – per riguardo a Barney Panofsky e al suo autore – il seguente programmatico ammonimento: “Totally Unnecessary Newspaper”.
4
Sono passati pochi mesi dai tre paragrafi precedenti. Devo ricapitolare le quattro o cinque volte in cui ho incontrato Mordecai Richler, nella sua visita italiana di febbraio: un paio di aperitivi a Napoli alla mostra d’Oltremare, dove si presentava il suo libro; una prima colazione all’hotel Oriente, alla quale accolse fin troppo gentilmente, Raffaella e me, visto che erano le otto del mattino; un pomeriggio a Roma, in giro per librerie; un breve fugace saluto alla presentazione romana della “Versione di Barney”, da Bibli a via dei Fienaroli (uno di quei posti, detto tra parentesi, che Barney disprezzerebbe). In ognuna di queste occasioni, Richler mi ha fatto la medesima impressione: un vecchio signore, dall’aria paciosa, silenzioso, simpatico, munito di due mirabili guanciotte appese, che guardava il mondo da un angolo piuttosto lontano della sua solitudine. Era sempre vestito nello stesso modo. Una giacca a quadri su due toni dominanti, grigio e verde, un paio di pantaloni grigi, e mocassini marrone.
Avrei dovuto seguirlo – secondo le indicazioni di Ferrara – “come farebbe un inviato di Rolling Stone con Madonna”. Un’accoglienza che mister Richler malaccolse sulle prime, o meglio, che gli era subito parsa stupefacente: il doppio poster, la rubrica quotidiana, i commenti dei lettori e degli amici del Foglio. Un intero gruppo di persone che costituiva un imprevisto nocciolo duro di baldanzosi sostenitori. Bisogna considerare che da parte sua, alla naturale diffidenza dell’uomo di mondo, si aggiungeva in quel caso l’apprensione importata, che nei primi giorni, soprattutto a Napoli, l’intero gruppo delle donne e degli uomini che gli stavano intorno (non soltanto gli Adelphi) nutrivano rispetto al battage promosso dall’elefantino. A proposito della rubrica di Andrea Marcenaro una lettrice di MR che non aveva capito l’idea di Giuliano – osservare il goffo conformismo della classe dirigente italiana con lo sguardo sornione, tagliente e imprevedibile di Marcenaro – disse a Richler: “sa, cerca di scrivere alla sua maniera”. Precisazione rassicurante – secondo quella signora – che lasciò Richler nella solita morbida bofonchiante immobilità e apparente indifferenza, giacché era ovvio che la rubrica lo lusingasse e avesse già saputo che il talento di Marcenaro vivesse di vita autonoma, completamente separata e indipendente dal talento narrativo di Richler e dalla forza umoristica di Barney. D’altra parte queste cose gli furono poi chiarite meglio dal traduttore italiano della “Versione di Barney”, Matteo Codignola, e dagli altri adelphiani.
Nei giorni successivi, a Roma, non ci furono grandi passi avanti nella conoscenza di Richler. Non solo a causa del mio rudimentale inglese, ma anche per via di una fondamentale ritrosia o timidezza che la sua riservatezza ispirava negli altri. Non riuscivo a essere Rolling Stone, né lui – peraltro inconsapevole delle mie pretese – Madonna. In mancanza d’altro, cercavo di cogliere nelle sue caratteristiche fisiche qualche prova o elemento del carattere. E soprattutto eventuali somiglianze con Barney. Queste c’erano in superficie: lo scotch, i sigari, la spiritosaggine. A Napoli rise per tutto il tempo con la sua interprete, nel corso della presentazione. E lei ci raccontò dopo che Richler aveva fatto una battuta dietro l’altra. Alcune delle quali consistevano in “I know who I am” (e variazioni), mentre i due presentatori illustravano al pubblico la sua biografia. Ma nel complesso sembrava meno rissoso di Barney, meno rumoroso di Barney.
Da noi, però, l’identificazione è stata completa. E quando a piazza Cola di Rienzo, Fabio Visca, voce nota della radio, inchiodò il suo Vespone e gli gridò: “Barney”, per noi al suo seguito ci fu un’ondata di vera commozione. Alla piena identificazione tra mister Mordecai Richler e quell’arruffone di Barney Panofsky hanno concorso due cose. La prima è che MR è sostanzialmente lo scrittore di un solo libro, come ha ricordato Maria Rosa Mancuso. (Cosa non semplice per i critici, per i ritrattisti o in generale per chi scrive di scrittori. Esempio: è difficile separare Geoffrey Firmin da Malcom Lowry). La seconda è la sovrapposizione che abbiamo disperatamente cercato tra Miriam, il grande amore di Barney, e Florence, la moglie di Mordecai. L’abbiamo cercata per semplice bisogno d’amore, perché la storia tra Barney e Miriam è bella e ci piacerebbe sapere che è possibile avere un amore così sulla terra e non solo per il tramite di un libro. Florence l’ho incontrata – e di sfuggita – una sola volta alla presentazione romana. Nei giorni precedenti non era stato possibile, perché a Napoli era stata male, un’indisposizione che l’aveva costretta in albergo per due giorni. Richler aveva organizzato una gita domenicale a Capri. Voleva portare sua moglie per guardare l’isola presumibilmente con gli occhi con cui la guardano gli stranieri (anche quelli politicamente scorretti), quella forma di primitivismo che fonde insieme Fersen, le signorine Wolcott-Perry, Chatwin e Tiberio. Si era intrattenuto con noi a parlare di Capri, soprattutto con Raffaella che ha trascorso nell’isola tutte le estati della sua vita. Rincontrandolo a Roma ci disse che alla fine non ce l’avevano fatta ad andarci, a causa del malessere di Florence. Capri insieme non la vedranno più e quella luna di miele di terza età che il nostro grand’uomo voleva per se e per sua moglie rimane come una specie di rimpianto postumo, se si può dire così. Non per lui che non c’è più, ovviamente. Ma per noi sì.
Marco Ferrante