Una versione leggermente diversa di questo articolo è stata pubblicata dalla Rivista Pandora nel maggio del 2023
Leonardo Sinisgalli ritratto negli anni ‘60 da Paolo Di Paolo, per gentile concessione di Silvia Di Paolo
In una foto del 1961, scattata al Portello, la fabbrica milanese dell’Alfa Romeo, Giulietta Masina – a sinistra per chi guarda – tiene a battesimo la Giulietta numero 100.001. Alle spalle della berlina bianca le maestranze dello stabilimento. A destra per chi guarda, il presidente dell’Alfa, Giuseppe Luraghi. La Giulietta è nata sotto la sua supervisione nel 1955. Secondo una versione ovviamente non certificata il nome sarebbe una trovata di Giorgia de Cousandier, moglie di un caro amico di Luraghi, Leonardo Sinisgalli. È uno dei mille snodi di una lunga storia fatta di fabbriche, cultura, libri, poesia e marketing mescolati in una stravagante reductio ad unum. Luraghi è stato uno dei grandi manager industriali del secolo scorso. Nel 1930, venticinquenne, era stato assunto in Pirelli dove era rimasto fino all’inizio del 1950, per passare al gruppo Iri. Una breve permanenza alla Sip, che al tempo era anche una società elettrica, e l’anno successivo la direzione generale di Finmeccanica, la sub-holding industriale dell’Iri che aveva assorbito le industrie manifatturiere nazionalizzate a partire dagli anni Trenta: Alfa Romeo, San Giorgio, Cantieri Navali dell’Adriatico, Filotecnica Salmoiraghi, e soprattutto Ansaldo, la storica azienda meccanica nata sotto l’impulso di Cavour che era stata protagonista della industrializzazione bellica italiana (80.000 addetti nel 1918), e base capitalistica della famiglia Perrone di Genova. Luraghi fu una personalità eclettica. Industriale, giornalista, scrittore, poeta, intellettuale, tra i sostenitori della funzione civile dell’impresa che non si limita a produrre benessere ma deve anche pensare il mondo in cui agisce. Nei vent’anni trascorsi in Pirelli ha fondato una rivista aziendale, Rivista Pirelli.
In Finmeccanica ripete l’esperienza. Nel 1952 affida l’incarico al vecchio amico Sinisgalli, compagno di avventura in Pirelli. Anche lui poeta, ungarettiano. Di formazione matematico e ingegnere, è un rinascimentale novecentesco, dalla letteratura al design, ha scritto anche per Domus e Casabella. Nel 1944 ha pubblicato un libro di frammenti tipicamente suo, Furor Mathematicus. Nei decenni successivi uscirà in altre tre versioni da lui approvate. Lo ha dedicato a un altro intellettuale eclettico, Rafaele Contu, il traduttore delle opere di Einstein in Italia. In Furor Mathematicus c’è tutta la versatilità di Sinisgalli. Persegue una specie di unitarietà del sapere, il dialogo tra arte e tecnologia, industria e letteratura. Umanesimo e scienza. Le due culture, quello che Charles P. Snow formalizzerà nel celebre saggio di dieci anni dopo. Il primo numero di Civiltà delle Macchine esce a gennaio del 1953, introdotto da una lettera di Giuseppe Ungaretti che resterà nume tutelare della rivista, anche dopo gli anni di Sinisgalli, fino alla morte. In copertina una combinazione di frammenti leonardeschi, uccelli in volo, bianco e nero, pura estetica sinisgalliana.
La rivista è un house organ aziendale, ma interpreta il ruolo come fiancheggiatore dell’industrialismo e come pensatoio di una modernità in cui conta la funzionalità dei mezzi di produzione, il ruolo dell’essere umano e l’estetica novecentista del progresso. Per questo utilizza artisti in voga. Renzo Vespignani in visita ai cantieri navali Ansaldo, Giulio Turcato (in versione figurativa, molto inedito) disegna un’officina, lo stabilimento della Termomeccanica di La Spezia. Le copertine hanno un tratto molto sperimentale, avanguardistico in se stesse – fatto interessante perché Sinisgalli non fu un ricercatore di avanguardie artistiche. Nella serie storica delle sue copertine (31 fascicoli) ci sono alcune idee in cui l’estetica viene direttamente dalla macchina: il frammento di un circuito radar, il pannello di una calcolatrice automatica, il quadrato greco-latino di R.A. Fischer (che rimanda alla meravigliosa trama di un tessuto coevo disegnato da due geni del Novecento, Charles e Ray Eames), un grafico introduttivo della misura elettrica dell’intelligenza, la pianta di un vicinato a Matera (erano gli anni di Banfield e dell’invenzione del familismo amorale, e lui era nato a Montemurro in Basilicata, in una valle distante 40 chilometri da quella di Chiaromonte), una tabella delle prime 97 combinazioni mentali studiate per l’Adamo II (il modello per spiegare il funzionamento della mente, elaborato da Silvio Ceccato e molto sostenuto da Sinisgalli). E nello stesso anno, il 1957, pubblica la più artistica delle sue copertine, una composizione astratta del suo amico Alberto Burri, in piena fase delle combustioni. A questo impatto visivo, corrispondono sommari dai contenuti altrettanto atipici. Per esempio: planning e design, il mistero del Comet, Raffaello e gli autotreni, una risposta sulla riforma fondiaria, Mallarmé pubblicista, inventori senza corona. Commento di Luraghi: «Non esiste in Italia né, credo, altrove una pubblicazione come questa, in cui vediamo il poeta stupirsi di una caldaia a vapore, l’ingegnere godersi i meccanismi di vecchi catenacci, l’architetto escogitare linguaggi nuovi, il matematico creare topi elettrici, il pittore bambino raffigurare fate e angeli al posto di macchine e uomini». Ma la stagione di Sinisgalli e della sua Civiltà delle Macchine finisce presto, in parte proprio a causa di Luraghi, il quale nel 1956 lascia la direzione di Finmeccanica perché non in sintonia con il nuovo presidente dell’Iri, Aldo Fascetti, e se ne va in Lanerossi che risanerà in tre anni, lasciando Sinisgalli privo della sua sponda naturale. Nel 1958 Fascetti porta Civiltà delle Macchine direttamente sotto il controllo della holding, alle sue dipendenze. Fonda ad hoc una società editoriale, Edindustria. Sinisgalli non apprezza la mossa e va via.
Alla direzione viene nominato Francesco Flores d’Arcais. È un giornalista cresciuto nella FUCI, la federazione degli studenti universitari cattolici, ne fa parte negli stessi anni in cui è guidata da Moro e da Andreotti. Viene da una famiglia di aristocrazia sarda trapiantata a Padova. Fa cadere l’uso del cognome Flores che sarà poi ripristinato dai figli. Si firma solo Francesco d’Arcais. È un buon amico di Gui e Taviani, ha battagliato nel mondo democristiano, ha perduto la direzione del Popolo, gli è stato preferito Ettore Bernabei. La direzione di Civiltà delle Macchine è in parte un risarcimento ma è anche il riconoscimento alla sua formazione. È anche lui un intellettuale multidisciplinare. Ha studiato matematica, scienza e filosofia. Mantiene la cifra stilistica della rivista e ne conserva l’impianto, il confronto tra le due culture. Farà il direttore per vent’anni, raccoglie un grande numero di collaboratori. Leonardo Sciascia, Norberto Bobbio, Franco Basaglia, Alessandro Portelli, Paolo Sylos Labini, Pasquale Saraceno, Luigi Spaventa, Federico Caffè, i giovani Franco Ferrarotti e Umberto Eco. Non perde il rapporto con gli artisti e con gli intellettuali che si occupano di arte. Anzi, lo intensifica. Scrivono per lui Pier Luigi Nervi, Giulio Carlo Argan, Gillo Dorfles, Achille Perilli, Cesare Vivaldi.
È la direzione più lunga della storia della rivista, 111 numeri. Le copertine cambiano genere: a parte rare eccezioni – come una curva di Peano nel 1968, decisamente sinisgalliana – sono pienamente artistiche. Da Franz Kline a un suggestivo Felice Casorati del settembre 1959: tralicci elettrici in Valgrisanche, lontanissimi dal realismo magico, dalle ereditiere e dal ritratto di Silvana Cenni. Adesso le copertine della rivista vengono commissionate. Gli artisti realizzano il quadro e lo consegnano all’editore, Edindustria. Sono tele di formato ridotto che vengono riprodotte in stampa. Sono diseguali: Severini, Mafai, Santomaso, Franchina, Vespignani, Dorazio, Capogrossi, Afro, Perilli, Cagli. Ogni tanto escono dalla pittura: una elaborazione fotografica di Enzo Ragazzini nel 1965 o una composizione di Alvar Aalto l’anno successivo. Come dice Luigi Ficacci in un bel saggio pubblicato sul primo numero 2023 di Civiltà delle Macchine in occasione dei settant’anni: «Con il passare dei bimestri, si distinguerà per essere una rivista molto bella, per scelte iconiche, configurazione grafica e qualità di stampa. Le copertine mostreranno vivacità e varietà di scelte, ma saranno sempre più riproduttive di opere artistiche. A quel punto, l’arte, nella individualità delle sue espressioni, fodera della propria qualità di confezione i contenuti interni del fascicolo. Ma questi, nella loro pertinenza informativa o problematica, conservano l’aderenza al proprio autonomo dominio». Dei contenuti è lo stesso Flores d’Arcais a scrivere in un lungo articolo pubblicato nel 1977 per il venticinquesimo anniversario. Egli riteneva che il cambio di proprietà, il passaggio da Finmeccanica all’Iri avesse modificato il retroterra della pubblicazione, non più il design industriale «bene o male filo conduttore della cultura espressa dalla rivista», ma il mondo delle macchine e l’uomo. Probabilmente una lettura riduttiva della visione del suo predecessore: tradiva la tensione tra i due direttori che aveva marciato parallela e sotterranea alla vita della testata dopo l’uscita di Sinisgalli.
L’articolo del venticinquesimo anniversario si intitolava Autobiografia di una rivista. Comincia e finisce con una anticipatrice riflessione sulle cose e il loro ineluttabile ciclo: «Una rivista nasce e, un giorno, o l’altro, muore…». E due anni dopo Civiltà delle Macchine chiuse. Secondo un’interpretazione, la causa fu la crisi di perimetro dell’Iri, la più grande conglomerata industriale europea, più di uno Stato nello Stato: banche, telefoni, autostrade, la Rai, l’Alitalia, le imprese manifatturiere, automobili e alimentare. In realtà sono i tempi che cambiano. E i primi sintomi del declino dell’Iri si riflettono nella vita della rivista e nell’appannamento di una generazione di cui Flores d’Arcais è parte. Nel 1977 escono tre numeri, nel 1978 due, nel 1979 anche. A dicembre Civiltà delle Macchine interrompe le pubblicazioni.
La cosa più interessante della storia di Civiltà delle Macchine è il suo peso nell’immaginario laterale della formazione politica, economica e culturale delle classi dirigenti italiane. Già tra gli anni Cinquanta e Sessanta ispira altre esperienze, per esempio la Rivista Italsider di Eugenio Carmi, con cui condivide l’uso delle copertine d’arte e – in parte – un catalogo di autori. Del resto, il duo Luraghi-Sinisgalli non scompare dalla scena. Luraghi, tornato all’Iri, va a dirigere l’Alfa Romeo in anni molto ruggenti, tra il 1960 e il 1974. Sono gli anni del boom commerciale della casa milanese, gli anni della Giulia e della Giulia Gt, delle spider, della bellissima 33 Stradale, dell’Alfasud e dell’Alfetta. E porta con sé ancora Sinisgalli. Insieme fondano Il Quadrifoglio, house organ dell’Alfa affidato alla direzione di Sinisgalli, il quale in quanto capo di una commissione allo scopo istituita, trova anche il modo di inventare il nome di una delle più identitarie automobili sportive dell’epoca, il Duetto. Luraghi non abbandona l’idea guida del suo impegno intellettuale e, anche per rivendicare una primogenitura, nel 1967 pubblica con Bompiani un saggio, Le macchine della libertà. Tema: uomo e macchina, schiavitù e autodeterminazione, tecnica, futuro, scienza e umanesimo. Lascia l’Alfa in polemica con le richieste che arrivano dalla Democrazia Cristiana su un nuovo stabilimento nel Mezzogiorno. Continua a lavorare nel settore privato, in Necchi, Marzotto e Mondadori. Morirà nel 1991. Sinisgalli era scomparso dieci anni prima, nel 1981, sempre accompagnato dalla fama di eclettico novecentesco. Il libro che meglio lo definisce continua la sua vita. Nel 1982 le edizioni della Cometa ripubblicano in anastatica Furor Mathematicus nella versione Urbinati del 1944. Nel 1992 esce ancora per Ponte alle Grazie e nel 2019 con Mondadori.
In generale tutta l’avventura di Civiltà delle Macchine continua a propagarsi. Nel 1983 d’Arcais prova a far rivivere la rivista sotto il titolo di Nuova Civiltà delle Macchine. Ne dirigerà due numeri e poi lascerà. Sotto la guida di Francesco Barone e Dario Antiseri le pubblicazioni continueranno fino al 2012, ma sganciate dal destino di Edindustria che resta sotto l’ombrello pubblico fino al 2003, quando viene ceduta alla Tosinvest della famiglia Angelucci.
Dopo la chiusura, tutta la fase 1953-1979 diventa lentamente oggetto di studio. Nel 1988 Fabiano Fabiani, capo di Finmeccanica, chiede a Scheiwiller di pubblicare un’antologia. L’importanza del progetto editoriale di Sinisgalli e d’Arcais (che scompare nel 2011) alimenta l’interesse scientifico, tra saggi e tesi di laurea. Di queste tesi di laurea ne abbiamo consultata una particolarmente bella. È del 1995 ed è firmata da una giovane laureanda in storia dell’arte, Anna Lombardi, con una suggestiva qualità di analisi e di scrittura (nella successiva vita professionale che sarà il giornalismo e non la storia dell’arte diventerà inviata di Repubblica). Ci sono – tra le altre – le testimonianze di Toti Scialoja e di Achille Perilli già anziani e molto materiale – soprattutto lettere, cinque di Luraghi – proveniente dalla nuora di Sinisgalli, Ida Bazzi, a sua volta singolare figura di intellettuale e di talento creativo, fondatrice di una piccola fabbrica sartoriale di design, Poignee. Nel 2008 nasce la Fondazione Leonardo Sinisgalli, a Montemurro. Sempre nel 2008 Avagliano pubblica una raccolta dei reportage dalle fabbriche commissionati da Sinisgalli tra il 1953 e il 1957, curata da Giuseppe Lupo, grande conoscitore di Sinisgalli, e Gianni Lacorazza. Nel 2014 Donatella Germanese scrive un saggio per il Max Planck Institut di Berlino. L’onda lunga ogni tanto si rifrange inaspettatamente: per esempio nel 2013, Luigi Zanda, al tempo capogruppo del Pd in Senato, pubblica a sue spese un piccolo libretto distribuito agli amici che raccoglie sette lettere/editoriali publicate da Civiltà delle Macchine, spedite dagli autori (Ungaretti, Gadda, Moravia, Ferrata, Tofanelli, Luraghi, Buzzati) a Sinisgalli. Un omaggio ai bei tempi, con un auspicio: “Oggi come allora, è molto difficile immaginare una solida e lungimirante opera di ricostruzione economica, industriale e sociale del nostro paese senza un forte apporto di tutte le energie culturali di cui ancora, in larga misura, disponiamo”.
Nella seconda metà degli anni Dieci comincia anche la riflessione sulla relazione tra la rivista e l’arte contemporanea. Succede che la Cassa Depositi e Prestiti riceve in comodato da Fintecna le opere che gli artisti avevano donato a Edindustria. Nel 2015, con il coordinamento di Sabrina Fiorino, viene pubblicato un catalogo che mette ordine nella materia. Quattro anni dopo viene inaugurata una raccolta permanente delle opere originali utilizzate come copertine di Civiltà delle Macchine che viene allestita nel palazzo della CdP in via Goito. Una elegante pubblicazione spiega e illustra l’operazione.
Parallelamente, il primo editore della rivista, Finmeccanica, che ha cambiato nome in Leonardo, decide di riprendere le pubblicazioni della testata. Il presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro, e il nuovo amministratore delegato, Alessandro Profumo, nominato nel 2017, decidono di ridare vita alla rivista. Nel 2018, Leonardo costituisce, come socio fondatore unico, la Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine. Obiettivo: valorizzare il patrimonio industriale e archivistico-museale dell’azienda, promuovere la cultura d’impresa, diffondere la conoscenza delle nuove tecnologie e dell’umanesimo digitale. Alla presidenza viene chiamato Luciano Violante. La Fondazione è l’editore di Civiltà delle Macchine.
Il nuovo direttore è Peppino Caldarola, barese, tutta la vita a sinistra, da ragazzo redattore della casa editrice Laterza, giornalista, dirigente politico (prima del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e poi del Partito Comunista), deputato, è stato vice-direttore di Rinascita e ha diretto due volte l’Unità. La rivista viene presentata a febbraio del 2019, il primo numero esce a maggio. Pubblica sei numeri, Caldarola scompare improvvisamente nel settembre del 2020. Viene sostituito da Antonio Funiciello, giovane dirigente dell’Eni, che ha diviso la sua attività tra la saggistica sulla leadership e l’attività di governo con Renzi e Gentiloni, di cui è stato capo dello staff. Firma un solo numero, con una copertina rosa di Tomaso Binga, poi lascia perché chiamato da Mario Draghi come capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio. Nel giugno del 2021 viene nominato direttore l’autore dell’articolo che state leggendo.
Nel corso dei quattro anni che sono trascorsi dalla ripresa delle pubblicazioni si è formato un nuovo lungo elenco di persone che hanno scritto per la rivista. Tra loro Angelo Panebianco, Pietrangelo Buttafuoco, Giulio Giorello, Giulio Tremonti, Nicola Lagioia, Chandra Candiani, Fabiola Gianotti, Valerio Magrelli, Antonio Pascale, Tommaso Pincio, Vittorio Macioce, Didier Queloz, Valeria Della Valle, Ferruccio de Bortoli, Giuseppe Lupo, Federico Rampini, Andrea Marcolongo, Michela Marzano, Éric Fottorino, Orlando Figes, Ian Williams, Roberto Petrini, Stefano Bartezzaghi, Luigi Ficacci, Barbara Frandino, Marco Belpoliti, Chiara Cappelletto. In copertina sono state pubblicate opere di Tomaso Binga, Achille Perilli (che era stato un antico e assiduo collaboratore nei primi trent’anni della rivista), Gillo Dorfles, e poi – più giovani – Gianni Politi, Pietro Ruffo, Davide Balliano, Loris Cecchini, Giulia Piscitelli.
La rivista rieditata entra nel suo quinto anno. Rispetto alle origini i temi sono aggiornati dai cambiamenti e dalla missione dell’editore, la Fondazione Leonardo. È sempre decisiva la questione tecnica che d’Arcais rimproverava a Sinisgalli, ma l’industrialismo non ha più lo stesso impatto sulla società, e le diffidenze che genera nell’attualità sono molto diverse da quelle di allora. La macchina-congegno di Sinisgalli è ormai parte delle nostre vite e in generale sappiamo come difenderci: abbiamo imparato che l’evoluzione della tecnica cambia un po’ – in meglio di solito – le nostre vite (la ricerca spaziale, il turbo, il telefonino, il caffè in cialde), ma non il nostro sé profondo. Questo fino a ora. Adesso però c’è una macchina – nuova – l’invadente genio digitale che minaccia la dimensione umana. È intervenuta sull’uomo massa (digitale) e lo ha scosso con molte questioni sulla formazione del consenso e sulla natura fragile delle democrazie. Adesso cerca di sovrapporsi all’uomo fisico con una diffusa gemellarità digitale, che riguarda il lavoro, la vita privata, persino l’evasione e il piacere. Il rapporto del digitale con l’uomo è la nuova civiltà delle macchine.
In questi cambiamenti, è inevitabile chiedersi quale sia il ruolo di una rivista. Interessante quesito, naturalmente, tanto più per la sede che ospita questo articolo, un’altra rivista. L’impronta originaria di Civiltà delle Macchine puntò a far convivere una impostazione industrialista, ottimista, sviluppista, che spuntava dall’Italia uscita dalla guerra, con un racconto, capace anche di malinconia, in cui tre elementi perenni del carattere culturale nazionale – scienza, umanesimo e arte come cerniera – convivessero. È ancora un buon punto di partenza.