Civiltà delle Macchine, gennaio 2023
Nei tempi d’oro del capitalismo italiano, le grandi imprese, pubbliche e private, condividevano – pur nelle differenze – una vocazione generalista, un disegno complessivo di sviluppo del paese, di perseguimento dell’interesse nazionale e di ruolo della classe dirigente espressa dalle aziende. È quello che ritroviamo da Oscar Senigaglia in poi in molte delle vite e nelle (scarse) memorie dei capitani d’impresa, privati e pubblici: da Raffaele Mattioli ad Adriano Olivetti, da Alberto Beneduce a Enrico Cuccia. Anche i leader più discussi della fondazione ottocentesca del moderno capitalismo privato, il senatore Giovanni Agnelli senior, Riccardo Gualino, Giacomo Feltrinelli, Ferdinando M. Perrone, contemperavano l’interesse privato dell’imprenditore che punta al profitto con una visione generale del sistema, del quadrante nazionale da cui partivano: quello che era bene per le grandi imprese era bene anche per l’Italia e viceversa. Questo tempo trovò il massimo compimento nel dopoguerra, nella stagione – anche molto esaltata dal racconto giornalistico, testimoniale e storiografico – in cui Eni, Fiat, Olivetti, Banca Commerciale e altri pezzi dell’IRI disegnavano il perimetro dei successi del sistema misto e fissavano i parametri culturali dello sviluppo industriale. Questa fase fu messa in crisi dalle trasformazioni degli anni Settanta. Sono cose di cui si è molto scritto e dibattuto. Ma il definitivo cambiamento del sistema misto italiano arriva tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, con la stagione delle privatizzazioni. Le spinte e gli obiettivi erano tre: restringere il perimetro dell’azione pubblica, innervare di principi efficientisti ex mercato il sistema, ridurre il debito pubblico. Fu una stagione controversa. Quello che si ottenne con le vendite e le quotazioni in borsa ridusse solo temporaneamente il debito trascinato in alto dai costi pubblici derivanti dalle riforme degli anni Settanta, previdenza in primis. Alcune delle imprese cedute dallo Stato non rafforzarono il periclitante sistema privato, e anzi si indebolirono perché il processo di privatizzazione non sempre funzionò (il caso Telecom per esempio). D’altro canto si stabilizzarono due grandi gruppi bancari e tre soggetti pubblici che sono diventati i cardini di un nuovo assetto del capitalismo misto, Enel, Eni e Finmeccanica/Leonardo, quest’ultima scorporata dal Moloch IRI.
Per discutere di come sia cambiato questo mondo, il rapporto tra pubblico e privato, l’influenza del mercato, “Civiltà delle Macchine” ha incontrato in un colloquio alquanto informale due capi di Finmeccanica/Leonardo, divisi dal tempo e dall’età. Fabiano Fabiani è stato amministratore delegato di Finmeccanica tra il 1985 e il 1995. Ha 92 anni e fu l’artefice di quella che venne allora definita la grande Finmeccanica che assorbì alcune aziende dell’EFIM per generare un polo tecnologico e della difesa. Alessandro Profumo ha 64 anni, dal 2017 è l’amministratore delegato di Leonardo, dall’anno precedente nuovo nome dell’azienda. La sta guidando nei tempi nuovi e inediti dell’integrazione industriale europea. Sono entrambi cattolici ed entrambi vengono per ragioni diverse da una formazione generalista. Fabiani ha cominciato nel giornalismo, è stato giovane direttore del Telegiornale, il sesto direttore per la precisione, dal 1966 al 1969, e ha proseguito la sua carriera nel mondo IRI, passando alla gestione industriale, prima come amministratore delegato di Autostrade e poi come consigliere, amministratore delegato e infine presidente di Finmeccanica. Profumo è stato un manager bancario, il fondatore della moderna Unicredit, e guidare una banca è l’attività più generale che un dirigente possa svolgere (sul tema c’è una lunga letteratura; qui si consiglia una bella e perfida intervista di Oriana Fallaci a Giovanni Malagodi che aveva militato nella mitica Comit degli anni Trenta alle dirette dipendenze di Mattioli). Prima del colloquio promosso da “Civiltà delle Macchine”, i due si sono incontrati una sola volta negli anni Novanta. Fabiani era il capo di Finmeccanica. Profumo era il giovane direttore generale del Credito Italiano. Dopo la riunione Fabiani si era informato con il presidente Lucio Rondelli dell’eccesso di domande tecniche del direttore generale. Profumo ricorda anche lui l’episodio. «Certo me ne ricordo. Fabiani era un grande personaggio e io ero impertinente». Da quell’incontro sono passati molti anni. Cominciano a chiacchierare delle cose comuni, esperienze e luoghi che a distanza di quattro decenni dalle rispettive esperienze possono ancora condividere. «In tempi in cui c’è chi si libera degli immobili – dice ironico Fabiani – l’operazione migliore che ho fatto è stata comprare la sede della società. Era della Philips in origine, disegnata da Gio Ponti nel 1960. La comprai dalla Rai di Gianni Pasquarelli, la Rai a sua volta l’aveva comprata dagli olandesi per aumentare lo spazio per i dipendenti».
L’opera di Gio Ponti si presta ad acclimatarli. La prima questione che affrontiamo riguarda il rapporto con l’azionista di riferimento – cioè lo Stato. Come dovrebbe essere questo rapporto? Profumo dice che «il rapporto con l’azionista di riferimento deve essere aperto e franco. I problemi vanno affrontati prospetticamente, soprattutto per un’azienda strategica come Leonardo. In questa interlocuzione essere una società quotata è a volte un’opportunità e altre volte un vincolo. L’orizzonte temporale del mondo finanziario è asincrono con quello industriale. Un’industria manifatturiera come Leonardo ha un orizzonte temporale molto lungo, necessario per programmare gli investimenti e vederne il frutto in innovazione e nuove tecnologie. Molti dei nostri programmi aeronautici hanno radici negli investimenti degli anni Ottanta o Novanta. Il mercato finanziario consente di avere opportunità importanti in termini di fusioni e acquisizioni, di organizzazione o di governance. Pensiamo per esempio agli SDGs, cioè gli impegni nella sostenibilità e nella trasparenza». Replica Fabiani: «Capisco il ragionamento di Profumo. Prima che si chiamasse Leonardo, nel 1993 quotammo la società, che intanto era diventata la “grande Finmeccanica” in virtù di due importanti decisioni: quella del presidente dell’IRI, Romano Prodi, di trasferire a noi la manifattura del gruppo STET; seguita da quella del presidente del consiglio, Giuliano Amato, di assegnare al nostro gruppo gran parte delle aziende dell’EFIM. La quotazione serviva anche a proteggere l’azienda dalle pressioni del sistema. Quotandola, l’IRI avrebbe avuto più rispetto di noi. I vincoli del mercato erano una difesa in quel momento storico».
In quarant’anni, come sono cambiati i rapporti con l’azionista per una società come Finmeccanica prima e Leonardo poi? Profumo: «L’azionariato oggi è fatto così: il 30,2% è del Tesoro, il 50,5% degli investitori istituzionali, il 17% retail, il restante (2,3%) azioni proprie. Sebbene sia il Tesoro l’azionista, l’azienda ha continui rapporti con il ministero della Difesa come cliente e con il ministero dello Sviluppo economico come finanziatore di una parte della nostra attività». Quindi c’è un peso dello Stato non solo come azionista ma anche come portatore di interessi? «Certamente, perché la funzione strategica di Leonardo per il paese è rilevante e richiede un’interlocuzione ampia e costante con tutte le componenti coinvolte. Leonardo rappresenta una parte importante del sistema industriale italiano». Ai tempi di Fabiani? «I rapporti erano molto ordinati anche allora, ma diversi. Facevamo parte di un grande gruppo industriale pubblico, l’IRI. Credo che all’epoca fosse ancora la più grande conglomerata industriale europea. Il nostro programma veniva prima approvato dalla holding controllante e poi dal consiglio di Finmeccanica». «Oggi funziona al contrario – interviene Profumo – prima vado in consiglio e poi dagli azionisti». Prosegue Fabiani: «Riguardo al Tesoro non avevo rapporti diretti. C’era un grande gruppo tra me e il Tesoro. Facevamo parte di una holding che non era soltanto un sistema industriale, ma qualcosa di più. L’IRI negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta aveva praticamente sostituito lo Stato con un grande programma di infrastrutture: aveva realizzato 6000 chilometri di autostrade, aveva fatto la rete telefonica, unificando le reti regionali, controllava le banche d’interesse nazionale, aveva il principale strumento di formazione culturale, la Rai. Quando arrivai in Finmeccanica, noi eravamo un pezzo di quel mondo, l’IRI. C’era anche uno scambio interno nelle nostre esperienze professionali. Quando Petrilli fu sostituito da Pietro Sette – ricorda Fabiani – me ne andai in Autostrade». La classe dirigente dell’epoca era un pezzo di mondo profondamente democristiano, oggi pressocché dimenticato. Il presidente era Giuseppe Petrilli e il direttore era Alberto Boyer, genovese di origine provenzale, amico di Paolo Emilio Taviani. Negli anni Novanta il crollo del sistema dei partiti pose fine anche a quel mondo e all’idea che le partecipazioni statali fossero una cinghia di trasmissione tra la politica e la società nel grande campo dell’economia reale. Oggi si può essere uomini d’area, ma non c’è più l’immanenza della politica a fare da collante. Tenendo conto di questa differenza avete mai aderito a delle scelte di sistema fatte altrove? Oppure avete mai detto di sì a una richiesta dell’azionista a voi non gradita? Profumo: «Quando mi chiesero di salvare Piaggio Aerospace, dissi sì, con una dotazione iniziale di 500 milioni di euro, posso valutare l’ipotesi. Ma nessuno dette seguito al ragionamento e la cosa decadde». Replica Fabiani: «C’era un’azienda nostra a Napoli che si chiamava Ansaldo Trasporti, avevamo già trovato un accordo sul nuovo amministratore delegato. Paolo Cirino Pomicino, all’epoca ministro del Bilancio, mi chiese di cambiare il nome su cui puntare, mi propose un altro amministratore. Io dissi di no, e lui mi disse che ero un testone, e non insistette. Racconto questo episodio, perché io credo fermamente che i sì e i no dipendano sempre dagli uomini». Profumo annuisce. Fabiani aggiunge: «Il potere non basta a spiegare le cose o a determinarle, c’è anche il carattere delle persone». Nel 1986 fu molto contestata la cessione da parte di Finmeccanica dell’Alfa Romeo alla Fiat che fu preferita alla Ford. Si disse che era una scelta di sistema per favorire Torino, e si attribuì a quel fatto la mancata introduzione di meccanismi concorrenziali nel comparto automobilistico interno. «Sì – risponde Fabiani – si disse questo, ma non era così. Romano Prodi, presidente dell’IRI, considerava positiva per il paese una seconda presenza industriale nel settore auto, ma – ovviamente – rimettendosi ai risultati della gara. Lo ha sempre ribadito nel corso degli anni successivi. E l’offerta della Ford era economicamente meno conveniente di quella della Fiat. La riunione con First Boston, nostro advisor finanziario, per valutare le offerte durò venti minuti, era tutto molto evidente. Noi non facevamo scelte politiche, ma di mercato». Interviene Profumo: «Una scelta diversa avrebbe dovuto prenderla semmai il governo». «Certamente», conviene Fabiani. Sul rapporto tra scelte politiche e scelte di mercato e sul ruolo della politica nelle decisioni strategiche torneremo più avanti. Arriviamoci da un altro lato, e cioè: due eventi straordinari e imprevisti hanno impresso una drammatica svolta alle nostre vite quotidiane, il Covid e la guerra in Europa. Il dibattito pubblico è stato investito di una serie di questioni: indipendenza energetica, autosufficienza alimentare e delle materie prime. Come sarà, come vi immaginate che sarà, dopo Covid e Ucraina il ruolo del potere pubblico nell’economia?
Dice Profumo: «In generale credo che bisognerebbe tornare a rafforzare il ruolo pubblico in alcuni settori strategici. È inevitabile. Poi bisognerà decidere su quale scala territoriale andrà fatto, e credo che l’Europa sia il nostro orizzonte naturale. Nel nostro settore partirei da un principio: bisogna presidiare delle competenze in cui essere leader come azienda ma anche come paese, salvaguardando alcune tecnologie strategiche. A partire da ciò, bisogna avere la capacità di stringere alleanze di lungo periodo con partner complementari, avendo un ruolo da pari. In questo modo si mantengono produzioni di qualità sul territorio, si salvaguarda e tutela l’intero ecosistema industriale, a partire dalle università fino alle piccole e medie imprese della filiera e si mantiene la competitività sui mercati internazionali. In questa logica un modello con una holding non quotata, che controlla società specifiche quotate, avrebbe più libertà per favorire un processo di aggregazione dell’industria della difesa europea, mantenendo al contempo la sostenibilità di lungo periodo del sistema Italia. In questo modo l’industria europea della difesa potrebbe intraprendere un percorso progressivo di integrazione, senza doppioni e valorizzando il tessuto industriale sottostante: una grande società di elicotteri, una di aerei, una di radar ecc.». Osserva Fabiani: «Ricordiamo che la difesa comune è un obiettivo che per l’Europa viene ancora prima della comunità del carbone e dell’acciaio e che negli anni Cinquanta fallì solo per i tentennamenti della Francia di Pierre Mendès France». Profumo annuisce. Fabiani prosegue: «Però per tornare al ruolo odierno degli Stati rispetto alle decisioni economiche, quando occupavo posizioni di vertice nel mondo IRI, le ragioni del mercato sembravano superiori a quelle dello Stato. Era il vento di quel momento storico, la fine della guerra fredda, la sconfitta del comunismo. Il mondo andava in quella direzione. Poi dopo qualche anno, un giorno ti accorgi che hai perduto l’acciaio e la rete telefonica fissa. E intorno a te c’è un mondo diverso in cui gli Stati sono di nuovo in conflitto tra loro. Oggi il governo sta ragionando su come assicurarsi il controllo della rete fissa e su come salvare l’Ilva». Ci furono errori irrecuperabili negli anni delle cessioni pubbliche? «Nella telefonia – risponde Fabiani – la privatizzazione fu ridicola». «Concordo – dice Profumo – in quel momento facevo il banchiere e la banca che guidavo aveva il 6% nella privatizzazione di Telecom. Che alcune cose non abbiano funzionato è chiaro. Ma dobbiamo fare attenzione in questa fase a non commettere l’errore opposto a quello di trent’anni fa. Il mercato resta uno strumento e dobbiamo usarlo nel miglior modo possibile». Dicevate prima che non sempre l’interesse a breve delle imprese si coniuga con una visione strategica dell’interesse collettivo, che dovrebbe essere una prerogativa della politica. C’è uno strumento appannaggio dello Stato che viene evocato spesso ma usato quasi mai, il golden power. Che ne pensate? Profumo: «Il golden power è uno strumento che funziona ex post, un correttivo. Secondo me non dovrebbe mai essere invocato, perché i problemi andrebbero risolti prima con una buona politica industriale». Fabiani interviene: «Beniamino Andreatta sosteneva che politica industriale è una espressione sbagliata. La politica industriale è determinata dalle imprese e non può quindi essere politica». «Mi dispiace di non aver mai conosciuto Andreatta, il giudizio sulla sua intelligenza è largamente condiviso. Capisco l’osservazione, però si può immaginare un sistema dove ci sia un orientamento generale, un disegno strategico e poi l’azione libera degli operatori economici». «Sono d’accordo. Guardando avanti la questione è evitare le ideologie, la contrapposizione tra statalismo e mercatismo. Lo sviluppo industriale può avvalersi di un ruolo del pubblico più o meno pronunciato. Fasi diverse dettano esigenze diverse. E sono curioso di sapere che cosa ne penserebbe Andreatta oggi».
L’evocazione di Andreatta ci porta a una ulteriore questione. La grande impresa pubblica e la formazione della classe dirigente. I due interlocutori sono guardinghi. Poi Profumo dice: «L’IRI ha formato classe dirigente riconosciuta in tutto il paese, da lì in poi la scuola manageriale italiana non ha saputo più esprimere la stessa leadership, a parte qualche eccezione». Fabiani: «Credo che l’IRI fosse avvantaggiata in questo rispetto agli altri grandi gruppi italiani. Era una vera holding, più ricca di aziende, fatta di affari diversi, strategie diverse, più articolate, dalla Rai all’Alitalia, alle banche. Era un mondo plurale. Comunque oggi quella selezione di classe dirigente non c’è più, perché il degrado è generale. La storia è così».
A proposito di ruolo delle imprese, e di contributo alla formazione delle classi dirigenti, Fabiani è entrato nella galassia IRI a metà degli anni Cinquanta. Erano anni in cui le imprese sviluppavano una carnalità identitaria (del resto è il tema di questo numero della rivista). Giuseppe Luraghi, potente e fantasioso capo di Finmeccanica prima e di Alfa Romeo poi, dette mandato in quegli anni a Leonardo Sinisgalli di fondare un paio di riviste che si scavarono uno spazio nell’immaginario culturale di allora, una era “Civiltà delle Macchine”. Che ricordo ha di quella storia? «In quegli anni “Civiltà delle Macchine” dava l’idea della presenza del mondo dell’industria nella dimensione culturale del paese. E di quale fosse il ruolo di Finmeccanica e dell’IRI nella costruzione di una soggettività industriale. L’eco dell’autorevolezza di Luraghi si percepiva ancora molti anni dopo la sua uscita dall’IRI. Nel 1988, quasi dieci anni dopo la chiusura della rivista, grazie all’editore Vanni Scheiwiller, pubblicammo una antologia della rivista». Perché Profumo la ripropose dopo quasi quarant’anni? «Perché la cultura d’impresa è un valore da tutelare e mantenere vivo nel tempo. Per l’impresa è un bene irrinunciabile, secondo me. E poi “Civiltà delle Macchine” era una formula e un nome bellissimi, che riassumevano questo valore».
Prima di chiudere, è rimasta una questione in sospeso sull’Europa. Dovremmo immaginarci una maggiore cooperazione tra i paesi europei nelle decisioni strategiche sull’industria? Fabiani osserva: «L’Europa degli ultimi tempi mi piace. Ha fatto dei passi avanti sui vaccini e sul recovery plan. Vedremo sul gas. Ovviamente si può migliorare, ma sembra la giusta direzione». Profumo: «Sul recovery sono d’accordo. Sui vaccini meno. E sulla guerra e sul gas secondo me non ci siamo. In generale mi sembra che non ci sia ancora una vera coesione. Sulle decisioni strategiche non c’è coordinamento. Per esempio, non vedo grandi discussioni continentali sulla tecnologia, su quello che servirebbe per conseguire degli obiettivi comuni. Non è solo un problema di egoismi nazionali, è proprio una forma di distrazione. Dovremmo avere un dibattito molto più serrato sul futuro della tecnologia e delle imprese tecnologiche europee, tanto più che alcune delle nostre economie sono ancora economie avanzate». Qualcuno osserva che le decisioni sulla transazione energetica e sul passaggio dal motore termico a quello elettrico, con tutte le conseguenze sull’industria dell’automotive, non sono scaturite da un dibattito ufficiale europeo. Osserva Fabiani: «Ma in fondo questo è accaduto altre volte. Da noi non ricordo grandi discussioni quando si nazionalizzò la produzione di energia elettrica. Fu un passaggio da una maggioranza a un’altra. Fu una richiesta di Riccardo Lombardi, minoranza del PSI, a cui Aldo Moro non si oppose. Si era discusso maggiormente della legge di Fiorentino Sullo sui suoli, o anni prima sulla riforma agraria, questo sì. Ho un amico sacerdote che vive in campagna che ha scritto due libri su questa storia della riforma agraria, ma solo perché era contrario. Raccontava che Fanfani era molto seccato quando scoprì che in Maremma l’acqua corrente per le case contadine funzionava davvero».
La storia del sacerdote riformista fa slittare la conversazione nei ricordi e negli aneddoti. Giudizi condivisi sulla situazione generale e sugli uomini: sulle promesse mancate della società italiana, sulle leadership politiche, su imprenditori poco imprenditoriali, su dirigenti d’impresa del passato. Spunta Cuccia a un certo punto, è quasi inevitabile. Cammina solitario verso via dei Filodrammatici, sa molte cose, anticipa di qualche mese le notizie, i fatti che accadranno, non è lo Stato, ma lo lambisce, lo interpreta. Spunta Senigaglia, il fondatore della siderurgia italiana, il più taylorista e politico dei nostri capitani d’industria, credeva nell’alta efficienza dei sistemi di produzione innovativi e nella valorizzazione del mercato del lavoro e delle retribuzioni dei dipendenti. Si evocano incontri simbolici con politici, amministratori, intellettuali, religiosi, quasi tutte storie di un mondo che non c’è più. Dopo tre ore di conversazione, i due interlocutori si salutano, è nata una cordialità, e continuano a darsi del lei.