da il Foglio del 21 Luglio 2018
Gli eroi di Culquaber
“All’Associazione Nazionale Carabinieri, sezione di Toronto, presieduta dal V.B. Giallonardo Cav. Tonino, si sono svolti i festeggiamenti per onorare la Virgo Fidelis, patrona dell’Arma, e ricordare il 21 novembre 1941, dove il Maggiore Alfredo Serranti e il battaglione carabinieri da lui comandato perirono eroicamente per difendere Culquaber, ultimo caposaldo italiano in Africa Orientale. Circa 550 i partecipanti alla manifestazione: molti soci e famigliari e molte autorità italiane e canadesi.
Quest’anno era presente anche il socio dott. Sergio Marchionne, figlio del defunto M.M. Concezio al quale è intitolata la Sezione di Toronto. Marchionne è socio sin dal 1973, anno di fondazione della sezione, ed alla morte del segretario Concezio nel 1984 fu chiamato a sostituirlo mantenendo la carica sino al 1994 quando si trasferì in Svizzera per motivi di lavoro. Nonostante i suoi impegni dovuti all’alta carica che ricopre presso la FIAT, quando gli è possibile viene a Toronto per visitare la mamma e la sezione. La festa ha dato anche la possibilità di presentare una tela raffigurante la Virgo Fidelis donata dal Professore Rosario Tornetta presidente della Sezione Carabinieri di Piazza Armerina (Enna). La serata è stata allietata dal maestro Tony Silvani e la sua orchestra. Nell’occasione padre Gino Carinci, già cappellano militare presso la scuola allievi sottufficiali di Firenze, ha benedetto il quadro raffigurante la Patrona dei Carabinieri”. (Novembre 2004, resoconto tratto dal sito Italplanet.it intitolato “Toronto festeggia la Virgo Fidelis e ricorda gli Eroi di Culquaber”).
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Due mesi e mezzo fa, Sergio Marchionne, un corpulento e occhialuto signore la cui voce scivola un po’ sulle erre, rientrava da New York forte di un accordo con la General Motors di Detroit, che sanciva un divorzio e scongiurava l’ipotesi di una causa legale tra la Fiat e il primo costruttore di automobili del mondo. Per due mesi quel successo gli ha fatto da scudo, lo ha preservato dai giudizi, gli ha garantito una specie di salvacondotto riguardo alla circostanza di essere un nuovo arrivato, uno sconosciuto, un mezzo forestiero. Oggi l’effetto put è un po’ svanito, la Fiat è stata attaccata sul mercato, il titolo è sceso sotto il suo valore nominale, le vendite vanno male, ci sono pochi soldi in cassa, la programmazione dei nuovi modelli è in ritardo, non ci sono progetti rivoluzionari, non c’è un piano industriale, c’è la cassa integrazione, c’è una generale disaffezione dell’opinione pubblica per la causa Fiat. E di Sergio Marchionne la classe dirigente finanziaria, industriale, politica, tradizionalmente abituata al confronto continuo con i vertici della più grande impresa manifatturiera del paese oggi dice: “Se non ha un cilindro nel cappello, la Fiat è finita. Ma lui non parla con nessuno, e nessuno sa che cosa abbia in mente”. Chi lo ha conosciuto in passato prima della Fiat assicura che la solitudine non è una novità: “Marchionne è fatto così”, dice un suo vecchio amico. Così come?
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La storia delle quattro vite di Sergio Marchionne – di infanzia abruzzese, adolescenza e gioventù canadese, maturità svizzera, attualmente torinese, addetto alla funzione di commissario tecnico della Fiat, età 53 anni, laureato tre volte, faccia normale, irrequieto, goffo, stropicciato, quasi insonne, psicologicamente mobile, professionalmente pure, commercialista e avvocato, esperienza di manager finanziario, già impiegato presso Deloitte Touche, Lawson Mardon, Glenex, Acklands (Canada), Alusuisse-Lonza, Sgs (Svizzera) – parte da una inevitabile osservazione. Impossibile dire che cosa sarebbe stato, se nel 1966 il maresciallo maggiore Concezio Marchionne, da Cugnoli, Pescara, una volta raggiunta la pensione all’età di anni cinquanta non avesse deciso insieme alla moglie Maria di andarsene in Canada. Fu anche per curiosità naturalmente, ma la spinta decisiva venne da un richiamo famigliare. Si erano conosciuti alla fine della Seconda guerra mondiale in Alta Italia. Concezio era un giovane sottufficiale dell’Arma, Maria una profuga istriana di una buona famiglia di proprietari. Si innamorarono. Lei sposò Concezio e sua sorella Anna un amico di Concezio. Anna e suo marito se ne andarono in Canada per primi, e a Toronto, quartiere di St.Claire, ai margini della vecchia Little Italy, aprirono una merceria con annessa attività di affitto di abiti da sposa. Erano anni ruggenti. Quando i Marchionne li raggiunsero, Concezio fondò la sezione dell’associazione nazionale dei carabinieri. Ci fu un periodo in cui ebbe in animo di aprire un’agenzia di viaggi, ma poi non se ne fece niente.
All’orizzonte degli Agnelli
Nel marzo 2000 Worms, un gruppo finanziario partecipato da Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli, entrò nella Sgs, la Société Générale de Surveillance, uno di quegli stupendi nomi d’occidente con cui i francofoni sanno vestire i loro affari. Poiché il management di Sgs, la società leader mondiale di certificazione aziendale e controllo della movimentazione merci, non dava i risultati sperati, gli azionisti di Sgs si misero in cerca di un uomo nuovo. Sergio Marchionne fu segnalato a Umberto Agnelli da un vecchio amico, l’ex presidente della Confederazione Svizzera Flavio Cotti (dal 2000 consigliere d’amministrazione indipendente della Fiat), e da un socio in Sgs, il barone August von Finck cui in passato l’ottimo lavoro di SM aveva reso il raddoppio del valore della sua partecipazione in Alusuisse, la società che aveva guidato fino a quel momento. In questi casi c’è sempre il dubbio che il manager prescelto sia troppo vicino a qualcuno dei soci, ma dopo un paio d’incontri Umberto Agnelli fu d’accordo con Finck, e Marchionne fu preferito ad altri due candidati. Agnelli lo trovò abile, sicuro di sé ma non presuntuoso, chiaro nei programmi. Confermò queste qualità alla guida di Sgs, che rimise in ordine abbastanza presto.
Secondo l’interpretazione corrente fu lo stesso Umberto Agnelli ormai molto malato a designarlo come futuro capo della Fiat una volta venuto alla luce il progetto personale di Giuseppe Morchio, l’amministratore delegato al quale fu attribuito il tentativo di scalare il gruppo torinese dall’interno. Ma è difficile stabilire da quanto tempo Agnelli ci pensasse, o se – come qualcuno ritiene – il periodo in Sgs, almeno da un certo momento in poi, dovesse essere considerato un apprendistato. E proprio a questo lascerebbe pensare il fatto che già da capo di Sgs nel 2003 entrò in cda Fiat.
Del resto qualcuno osserva che stando alla cronaca di un giornale locale, “Il Centro” di Pescara, sin da aprile del 2004 Sergio Marchionne doveva avere idee precise sul suo futuro. Avendo deciso di trascorrere le vacanze di Pasqua in Abruzzo, invita una cinquantina di parenti per una colazione in un ristorante a pochi chilometri da Chieti, e ad alcuni di loro rivolge una battuta che l’articolista riferisce: “Ho visto fuori delle Mercedes. La prossima volta che torno voglio vedere delle Fiat, altrimenti vi tolgo il saluto”. E i famigliari ritenevano che quella frase rivelasse qualcosa di più di un progetto.
Un uomo che lo conosce abbastanza bene dice che di sicuro, “indipendentemente dalle intenzioni degli Agnelli, appena entrato in Sgs, Sergio cominciò a puntare alla Fiat”.
Fatto sta che il 1° giugno 2004, a pochi giorni dalla morte di Umberto Agnelli, il nuovo presidente della Fiat Luca di Montezemolo annunciò che l’amministratore delegato del gruppo Fiat sarebbe stato un manager italocanadese di nome Sergio Marchionne.
Un’adolescenza a Toronto
Toronto è una grande metropoli, modello nord-America. Secondo un modo di dire popolare, in voga nella più raffinata ed europeizzante Montreal, “è una bella città vista allo specchietto retrovisore”. Per una versione maggiormente upper class di anti-torontismo ci si affidi a Morderai Richler: il suo eroe Barney Panofsky deplora alcune perniciose abitudini di quelli di Toronto, come il footing e l’insalata dopo squash.
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Ma non erano queste le abitudini di Marchionne. Vivevano a North York, in periferia. Il giovane Sergio era di carattere chiuso, era introverso – al fondo lo è ancora – non aveva bisogno di applicarsi troppo negli studi e aveva una memoria formidabile. Come un ragazzino preso in prestito dai nove racconti di Salinger, un po’ gli piaceva pescare. E subiva l’influenza di sua sorella maggiore, Luciana, che si laureò in letteratura italiana, cominciò a insegnare all’università e morì molto giovane.
Gli piaceva la musica classica, leggere, e per un certo periodo – strano gusto d’emigrante – Fabrizio De André. Trascorreva una buona parte del suo tempo libero nella sezione dell’Associazione nazionale dei carabinieri. “E’ cresciuto nella sezione – ricorda uno dei soci – fino al 1984, quando morì Concezio, veniva qua a giocare a carte. E come noi chiamava il padre con il cognome: Marchionne. Erano come fratelli. Aveva un atteggiamento protettivo con il maresciallo il quale era caratteriale, e se giocava a carte, soprattutto in coppia, spesso si incazzava”.
Quando si iscrisse all’università, si aiutava facendo lo sportellista nella banca privata di un italocanadese di nome Carmine Dinino, attualmente senatore a vita.
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A Toronto negli anni Sessanta i figli degli emigrati italiani cominciarono a integrarsi, si formò un sentimento identitario e all’università fu aperto un dipartimento di italianistica. Il vicebrigadiere (e cavaliere) Tonino Giallonardo, attuale presidente della sezione Anc di Toronto, dice che “Sergio si è sempre sentito più italiano che canadese o anglosassone, anche perché a casa sua non si parlava l’inglese”. Nicola Sparano, capo redattore sportivo del Corriere Canadese, che lo conobbe durante l’adolescenza, dice che “si dibatteva tra due culture, era canadese, ma con le radici italiane”. Che significa sentirsi canadesi? “Ci si sente nordamericani, ma non statunitensi – risponde Giorgio Beghetto, italocanadese a sua volta, amico di giovinezza – Toronto è una metropoli cosmopolita, con gente di tutte le razze e di tutti i colori, multiculturale. We are proud to be canadian, ma poi ognuno tiene al suo retaggio”. Lui stesso, intervistato dal direttore della Stampa, Marcello Sorgi, dice: “Ho avuto una formazione anglosassone e parlo inglese, ma mi sento italiano fino in fondo”.
Lawson Mardon
Dopo aver fatto le prime esperienze come consulente fiscale in Deloitte Touche e aver lavorato nella finanza di alcune imprese industriali canadesi, arrivò il primo contatto professionale con l’Italia. All’inizio degli anni Novanta fu richiamato alla Lawson Mardon – un’azienda che operava nel packaging industriale – dove era entrato una prima volta nel 1985 e uscito nel 1988. La storia per sommi capi è la seguente. Nel 1991 la giovane banca d’affari Cragnotti & partners comprò il 32 per cento del capitale di Lawson Mardon (più il 100 per cento dei diritti di voto) per 80 miliardi di lire. Marchionne venne preso come responsabile della finanza. A novembre del 1993 la Lawson Mardon fu acquisita dal gruppo metalchimico svizzero Alusuisse-Lonza. Sergio Cragnotti ne trasse una plusvalenza di 110 miliardi di lire e l’interdizione da ogni attività in Canada: l’autorità di quel paese lo condannò, perché la speculazione del finanziere italiano era stata collegata a un intervento spregiudicato per influenzare i corsi di borsa. Marchionne seguì il destino dell’azienda cominciando la sua terza e decisiva vita, quella svizzera. Marchionne e Cragnotti non andarono d’accordo. Sandro Orlando ha ricostruito la storia dell’avventura canadese di Cragnotti con un articolo pubblicato alcuni mesi fa dal Diario, e al Foglio dice: “Il manager italocanadese fu abilissimo, riuscì a non litigare con Cragnotti, e ad andare a ricoprire una posizione di primo piano nella società acquirente, Alusuisse”. Secondo le testimonianze degli uomini che vissero quella stagione dall’interno, in Alusuisse e in Lawson, nella fase cruciale Marchionne si oppose a Cragnotti e fu il portabandiera degli interessi dei dipendenti.
Cragnotti, interpellato dal Foglio, fa sapere di non voler parlare attraverso i giornali.
L’amor proprio (e una maniglia a bacchetta)
I fatti del 1992-93 hanno forti conseguenze sul sistema economico italiano. Il sommovimento politico e la pressione dell’Europa costringe le grandi aziende pubbliche a trasformarsi. L’Eni diventa un’azienda di successo, l’Enel supera la sua cultura ministeriale e si modernizza, Telecom è costretta alla sfida della concorrenza almeno nella telefonia mobile, le banche affrontano pur tra le difficoltà la transizione verso il mercato.
Stranamente sono i grandi gruppi privati a trovarsi spiazzati. La Fiat non coglie l’occasione per il cambiamento. E’ ancora forte e contemporaneamente pigra. E’ come cloroformizzata dai suoi privilegi sul mercato domestico. Un libro appena uscito di Vincenzo Comito, professore di finanza aziendale all’Università di Urbino, ricostruisce le ragioni di quest’ultima crisi della Fiat, riconducendola alle scelte sbagliate fatte quindici anni fa (cfr. “L’ultima crisi - La Fiat tra finanza e mercato”, edizioni L’ancora del mediterraneo). Dice Comito al Foglio: “Negli anni Novanta la Fiat commette due errori. Primo: credere che non ci siano più spazi di mercato in Europa e puntare sui paesi in via di sviluppo. Succede l’esatto contrario, il mercato dell’auto in Europa è vivo e si trasforma, e le aziende che ne sanno cogliere i mutamenti come Peugeot o Bmw diventano dei casi di successo. Secondo: Fiat punta sulla diversificazione, compra troppe cose e riduce le sue riserve finanziarie”.
A Torino, Marchionne trova dunque una situazione straordinariamente difficile. Un’azienda ministeriale, e una divisione auto resa più timida e chiusa su se stessa dopo l’accordo del 2000 con General Motors, il più grande produttore automobilistico al mondo. La vendita differita di Fiat Auto diventa quasi un alibi collettivo, una nuova sfumatura d’identità, di carattere aziendale: tanto all’auto ci penseranno gli americani.
Accanto ai problemi strategici, c’è un altro elemento decisivo: si è indebolito l’azionista. Una grande famiglia che diventa via via più numerosa e slegata, segnata dai lutti e dalla fragilità della generazione di mezzo. E a questa rete di fratelli, sorelle, cugini e nipoti – soprattutto dopo il brevissimo interregno di Umberto – manca la guida di quella stranissima figura che è stato Giovanni Agnelli: un uomo disputato dai doveri e gli obblighi della sua funzione civile (imprenditore borghese, contaminato e sedotto dalla mitologia dei grandi magnati americani, contemporaneamente erede della tradizione piemontese militaresca che suo nonno gli ha trasmesso), ma anche interessato alle lusinghe dell’amor proprio, del potere mondano, della ricchezza ovviamente, che un po’ si riflettono nel tocco frivolo con cui sceglie di interpretare il suo ruolo nel mondo. Rispetto al patriarca, SM si ritrova a fare i conti anche con un inedito problema psicologico: trova un sistema aziendale che sta lentamente elaborando la scomparsa di Giovanni Agnelli, e altrettanto lentamente comincia a ragionare su quello che davvero è stato il suo lungo regno sulla Fiat e su quello che è oggi il ruolo della famiglia Agnelli.
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Nel complicato intreccio di tutti questi elementi, l’ultima volta che la Fiat aveva lasciato un segno nell’immaginario con i suoi prodotti era stato a metà degli anni Ottanta: la Uno e la Y10 furono lanciate con due campagne che – come Renzo Arbore, il Monclair e le spalline – segnarono la storia italiana del decennio. La risparmiosa, comodosa, scattosa, sciccosa Uno e la Y10 “che piace alla gente che piace”. Erano due ottime utilitarie che alzarono gli standard del loro segmento, creature del genio di Vittorio Ghidella. Ma Ghidella perse la sua battaglia interna, fu destituito dal comando dell’auto e mandato via. Per la Fiat cominciarono gli anni della diversificazione, della tutela di Mediobanca, dei successi finanziari, e della lenta decadenza industriale. Vennero la piena leadership (anche fisica, secondo la fisiognomica del potere) di Cesare Romiti e le macchine di Paolo Cantarella, cui sarebbe piaciuto passare alla storia dell’auto per la sua cultura del prodotto, perché aveva passione da collezionista e un temperamento citazionista: aveva voluto una nervatura sulla fiancata di una spider Barchetta come quella di una remota Ferrari MM 166 Barchetta di quarant’anni prima e sullo sportello una maniglia a bacchetta riesumata da un modello Fiat degli anni Cinquanta; e per chiudere il bocchettone del serbatoio di una delle più brutte automobili della storia del rock – la Coupé – aveva voluto un tappo cromato molto molto vintage. Ma questi modelli non passarono alla storia dell’auto.
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La Fiat è ancora il primo gruppo industriale privato del paese. La holding capitalizza circa 3,7 miliardi di euro, fattura 46,7 miliardi di euro, ha 160.000 dipendenti nel mondo, di cui 71.000 in Italia. Nel 2004 ha avuto una perdita ante-imposte di 1,57 miliardi (contro il 1,50 del 2003), ma ha raggiunto il pareggio operativo di gruppo, cioè i conti generati dall’attività industriale sono in pareggio; ha un’esposizione finanziaria netta di 5 miliardi e debiti complessivi per 8 (cifre che raddoppiano con i nuovi criteri contabili che entreranno in vigore dal 2006). La stragrande maggioranza dei debiti va attribuita alla società automobilistica, la Fiat Auto. Che fattura 20,5 miliardi, ha 45.000 dipendenti, di cui 29.000 in Italia, e nel 2004 ha perduto circa 800 milioni di euro.
Li spinse e loro volarono
Alusuisse-Lonza (Algroup dal 1998) era una conglomerata svizzera di media grandezza, che si occupava di alluminio, chimica, e packaging. L’obiettivo del management per tutti gli anni Novanta fu di trovare un partner nell’alluminio. Marchionne ci provò con Alcoa, il numero uno mondiale del settore, con i tedeschi della Vaw, e infine con i canadesi di Alcan. Gli andò bene con i canadesi, tanto che oggi il gruppo costituito per successive incorporazioni da Alcan, Alusuisse e Pechiney (dopo un conflitto contro l’antitrust europea di Mario Monti) è il secondo produttore di alluminio al mondo.
L’arrivo di Marchionne (pronuncia Alusuisse: Marcionne) fu un colpo per gli svizzeri. Troppo poco formale, si vestiva in jeans e camicia, introdusse il tu, modificò le catene di comando: dai nove livelli gerarchici si passò a cinque, cosicché tra il capo azienda e un operaio sul terreno c’erano solo tre livelli intermedi. Immise alcuni principi regolatori, quegli apparati di norme aziendali che sono insieme ingenui e costitutivi. Tipo: la cultura non burocratica, poche regole, irriverenza professionale (cioè fantasia, rinuncia alle remore gerarchiche), allineamento al mercato, gusto del rischio, spingersi verso il limite delle proprie potenzialità. Un testimone racconta che per promuovere il brivido da crepaccio fece circolare una poesia – piuttosto in voga nei siti new age, che la riportano in un certo numero di differenti versioni – composta dal poeta inglese Christopher Logue nel 1968 in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Guillaume Apollinaire. Si intitola “Come to the edge”. Eccola nella versione diffusa da SM: “Come to the edge he said/Come to the edge/They came and were afraid/Come to the edge he said/ He pushed/ And they flew”.
Piccola aneddotica automobilistica
Anagramma di Sergio Marchionne tratto da un sito internet: “His car engine room”.
La sua prima automobile fu una Fiat 124 spider avuta in regalo per i suoi sedici anni. Durò un paio di giorni, la distrusse in un incidente. L’ultima è una Ferrari 430 da 150.000 euro circa, con cui gli capita di fare il pendolare tra Torino e la casa dove vive la sua famiglia in Svizzera.
Amante della velocità, sulle strade della Confederazione lo multavano spesso; per questo, essendo costretto a seguito delle multe a circolare con automobili di piccola cilindrata, a volte lo vedevano arrivare in ufficio in Smart.
Quando si trasferì in Svizzera scelse di vivere a Zug, un cantone con una tassazione sui redditi piuttosto conveniente. Per andare al suo posto di comando in Alusuisse ogni giorno faceva su e giù con Zurigo e ai suoi diceva: “Questa mezz’ora che faccio in macchina tutti i giorni è quella che mi rende di più”.
Se sia utile darsi servito con un tris
Il weekend in cui si trovò l’accordo sulla put, e General Motors e Fiat divorziarono, sono gli americani stessi a raccontarlo con una sfumatura di fiction. Venerdì 11 febbraio, Sergio Marchionne chiamò personalmente Rick Wagoner e gli disse che era pronto a partire per New York. Si portò due avvocati e il responsabile di Powertrain (la joint-venture per i motori e i cambi che andava sciolta). Poiché non vi era certezza dell’accordo, Marchionne lasciò a casa quelli della comunicazione. Un tratto agiografico riferisce che era armato soltanto di una cartella con i documenti e una borsa con un cambio. Atmosfera densa, Marchionne e gli altri fumatori se ne scendono ogni tanto di sotto per fumare, approfittando di una uscita secondaria. Chiudono all’alba di domenica. Il Wall Street Journal scrive che è una giornata trionfale per il capo della Fiat. Ma i suoi amici non ne sono stupiti. Riflettono su un punto: sicuramente Marchionne non è ancora un top manager di fama mondiale, però è uno che per tutta la vita ha trattato con dei giocatori aggressivi e spregiudicati. Sergio Cragnotti in Lawson; il raider Rahi Sahi, pakistano di nascita, che incontrò in Canada al tempo della Acklands Ltd, una società di componentistica auto in cui Marchionne aveva militato come Ceo per un paio d’anni all’inizio dei Novanta; Martin Ebner, il disinvolto finanziere svizzero che dopo aver scalato Alusuisse gli affidò la carica di ad.
Oltre a essere preparato, ad avere una sufficiente cultura giuridica per tenere il filo della trattativa tecnica (e comunque il contratto predisposto da Paolo Fresco era ottimo), è uno che ha la psicologia dell’ultimo minuto, che capisce fino a quando si può – o si deve – tirare la corda. Poi c’è un altro fatto: la metafora del poker un po’ abusata nei mesi scorsi, in questa circostanza aveva un fondamento. Per anni nella sezione Anc di Toronto il giovane Sergio Marchionne aveva trascorso le sue serate a giocare a scopa, briscola e “anche a poker – racconta un testimone – e Sergio giocava bene”. Dire agli americani “noi vogliamo esercitare la put” era come darsi serviti con un tris. C’è un po’ di bluff, ma se la doppia coppia alla vostra destra non si fida, perde.
Al telefono
Sono due i predecessori che lo hanno chiamato per congratularsi dopo il 13 febbraio: Gabriele Galateri e Cesare Romiti (lo racconta SM a Edoardo De Biasi, vicedirettore del Sole 24 ore, in una delle due sole interviste concesse dopo la chiusura del rapporto con Gm).
Pettegolezzi psicologici raccolti intorno a queste due telefonate: Galateri, presidente di Mediobanca, lo chiama per un naturale obbligo di galanteria, lo conosce da tempo, è uno di quelli che ha partecipato alla sua chiamata in Sgs, nel complesso sistema di rapporti che gravita intorno all’azienda e alla famiglia Agnelli hanno in comune una osservanza umbertina.
Romiti lo chiama invece per un riflesso di selvatico attaccamento a quello che è stato, per un tic maschilista o padronale, con lo spirito del custode di un’antica amante: dopotutto Romiti ha nei confronti della Fiat lo stesso atteggiamento che l’avvocato Komarovskij conserva nei confronti di Lara, anche dopo l’inizio della storia con Zivago.
Note personali
Lo dicono deciso di carattere e rapido. E’ uno di quelli a cui basta dare un’occhiata a un dossier per spiegarlo a chi lo ha scritto. In Canada, come facevano molti ragazzini, andò a lavorare in un supermercato per fare qualche soldo: nel suo caso, secondo un eroico racconto che circola tra i conoscenti, gli offrirono di fare il caporeparto. E’ un’intelligenza delle cose possibili, portato per l’improvvisazione. Una volta, quando doveva vendere Alusuisse all’Alcoa, arrivò a Londra la sera prima della riunione. Era in ritardo e avrebbe dovuto preparare le sue slides. Disse al suo collaboratore che avrebbe preferito farlo dopo cena, aveva molta fame. Ma dopo cena gli disse che era stanco. E andò a dormire. Si svegliò alle cinque del mattino, scrisse di corsa la sua presentazione e riuscì a metterla sulle slides un minuto prima che avesse inizio la riunione.
Un suo ex collega dice: “E’ esigente e senza pietà, ma non è un ipocrita”. Un altro osserva: “E’ informale, allegro, forte senso dell’umorismo, tranne quando riguarda lui”. Esempio di umorismo dispettoso: poiché non andava più d’accordo con m.me Dominique Damon, suo capoazienda in Alusuisse fino al 1997, cominciò a scriverle degli appunti in un inglese complicatissimo. M.me Damon non parlava inglese, e – messi in quel modo – incontrava anche delle difficoltà a farseli tradurre.
E’ una persona molto fisica. Qualcuno ritiene che sia lunatico e chi lo conosce conviene su un punto: un modo per farsene un’idea è osservare come nelle fotografie il suo sguardo sia sempre leggermente altrove, così com’è dal vivo: l’occhio vispo, lo sguardo insolito, un po’ allucinato. Ricorda l’indiano che scappa dal manicomio in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Parla un inglese americano con una sfumatura slang, fuma come un turco, anche sigarette di marche diverse (notate: Muratti, compresa una versione svizzera, Davidoff e Philip Morris lights) una dietro l’altra, quando non ne ha le chiede in giro. Gli piace la cucina abruzzese, beve acqua minerale.
Dalla parte di Cugnoli
SM non è sfuggito al trattamento professionale di Generoso D’Agnese, autore di trecentoquarantacinque (345) piccole biografie di italiani che hanno fatto fortuna all’estero dal XVI secolo a oggi – “Cristoforo Colombo escluso”, tiene a precisare – dall’Artide all’Antartide. E da lui apprendiamo alcune informazioni abruzzesi. Dei dieci fratelli e sorelle di Concezio Marchionne, a Cugnoli, provincia di Pescara, sono rimaste solo Maria ed Ermelinda, uniche sopravvissute di Alfonso Marchionne, commerciante di bestiame. In giro per i paesi tra Chieti e Pescara vivono decine di cugini Marchionne. Qualcuno si ricorda di Sergio ragazzino che se ne scende dalla casa di via Galiani nel paese vecchio di Chieti; un altro di quando erano già partiti per il Canada e tornavano d’estate, e la mattina si andava al mare e i due cugini che arrivavano dall’estero – soprattutto Luciana, che era bella – gli facevano fare una ottima figura. Ovviamente portano questa parentela ritrovata come un caso precipitoso, ma meritato. Alle famiglie meridionali piace il lustro, l’avanzamento sociale e hanno gusto della leadership. I nipoti di Alfonso Marchionne sono sensibili alla politica. Uno è sindaco di Cugnoli, un altro si è candidato sindaco a Gissi, il paese di Remo Gaspari, con una lista di centrosinistra e non ce l’ha fatta per un pugno di voti, un altro è consigliere comunale a Chieti. Quest’ultimo è il più creativo: candidatosi in una lista centrista Udc-Udeur ne è risultato il primo degli eletti e dicono che magari avrà un futuro nazionale. Questi cugini hanno il divieto assoluto di servirsi politicamente della cuginanza e pertanto li conserviamo nell’anonimato.
Non solo un format
Dice Sabrina Cohen – attualmente all’agenzia di notizie finanziarie Dow Jones – che da New York ha seguito la trattativa tra Gm e Fiat per conto di Apcom: “E’ un tipo diretto, immediato, capace di improvvisare una conferenza stampa e di rispondere non evasivamente alle domande. Al salone di Detroit, alcune ore dopo un colloquio mattutino, l’ho intercettato in corridoio e mi ha fatto una battuta sul fatto che io stessi ancora lì a fargli la posta. Gli ho detto che aspettavo il caffè pomeridiano e lui mi ha risposto che temeva io resistessi fino all’aperitivo”. E’ uno che sa trattare la stampa. Racconta Thierry Meyers di Le Temps di quando alcuni anni fa lo incontrò la prima volta al forum di Davos: “Era un po’ sperduto, ma mi colpì per la sua aria normale. Ci mettemmo al bar a parlare appunto molto normalmente di Svizzera e di vita professionale in Svizzera”. Ogni tanto essere normali e coltivare l’informalità può diventare una specie di format. Al momento di scattare uno foto-ricordo – Marchionne e il capo di GM Rick Wagoner che si stringono la mano – poi pubblicata da Panorama, Toni Simonetti, portavoce di General Motors e autrice dello scatto, ha raccontato di avergli sentito dire “non ho cravatte qui con me e non ho intenzione di infilarmene una per l’occasione”.
Analogamente a Torino desta impressione sapere che ogni tanto, la sera, va a mangiare la pizza con gli autisti e la scorta.
Dietro questa bonomia ufficiale, SM è un classico duro. Con gli americani, con i cugini chiacchieroni, con il management Fiat abituato alle mollezze del vecchio continente. Dice Pierluigi Bonora, che segue la Fiat per il Giornale: “Recentemente l’ho visto mettere pubblicamente in difficoltà uno dei suoi perché stava spiegando una cosa in modo diverso da come Marchionne avrebbe voluto”. Con i dirigenti è stato energico sin dal principio. Ha fatto fuori una sessantina di manager della holding e un centinaio di uomini di comando nell’auto, un po’ per far sapere di essere arrivato, un po’ perché gli è venuto naturale. Ha dato una spallata alla funzione del personale, troppo conservativa. In una azienda dove non si erano mai visti licenziamenti su due piedi e dove c’è sempre stato una specie di spazio di parcheggio appositamente destinato ai direttori in disuso, qualcuno degli epurati ha definito Marchionne brutale, protestando che i suoi metodi non si sono mai visti neppure nelle grandi aziende concorrenti tedesche. Quelli che riescono a guardare la cosa con neutralità, spiegano che in effetti alcuni dei licenziamenti dei mesi scorsi, soprattutto quelli estivi, sono stati particolarmente cruenti, “ma lui non lo fa per manifestarsi inesorabile, direi che ti caccia fuori e basta”. Si favoleggia che un giorno entrato in incognito in una concessionaria per una prova a campione, insoddisfatto dei tempi di accoglienza, ha preteso la testa del concessionario.
Tu, Lapo ed io
All’inizio, l’archiviazione della pratica General Motors lo aveva investito di una leadership che non aveva. “La Fiat può dare alla testa – dice un anonimo fiatologo – si dice che sia stato lui e non Montezemolo a volere la pubblicità sui giornali inneggiante alla Fiat tornata italiana”. Finita la luna di miele, lo stato dei rapporti di SM risulta alquanto frammentato; e la contraddittorietà delle informazioni sul suo conto è anche un segno dell’isolamento in cui sta lavorando.
Azienda. In Fiat accanto al terrore innescato dalle purghe estive e allo scetticismo riguardo la capacità del capo di sconfiggere le incrostazioni burocratiche, prima hanno cominciato a pensare che un uomo in grado di accomodarsi con Detroit, potrebbe anche farcela a Torino; poi è stata la volta di un sentimento altalenante, giornaliero. Esempio: dopo l’acquisto di un milione di euro di azioni da parte di SM per dare un segnale ai mercati, due concessionari ne hanno seguito l’esempio. Ma ci sono giorni in cui prevale la sfiducia.
Famiglia. Reazione simile nella moltitudine di case Agnelli e Nasi, Rattazzi, Campello, Brandolini, il cui milionario futuro a questo punto dipende abbastanza dal lavoro di Marchionne. La famiglia spera, contemporaneamente lo teme, e ha le armi spuntate. Pure sul piano dei rapporti personali c’è una specie di borsino quotidiano. Al momento si considerano abbastanza buoni i rapporti con Andrea Agnelli, figlio di Umberto, e con i due Elkann, John e Lapo, con cui ogni tanto va a mangiare la sera. Di Lapo, non disdegna quella specie di berlusconismo naturale (buffamente enfatizzato dal cosmopolitismo), la rabdomanzia giovanilistica, la visione Swatch che potrebbe riavvicinare i prodotti Fiat al consumatore medio.
LCdM. La put ha inciso soprattutto sul rapporto con Luca di Montezemolo. Psicologicamente è una relazione delicata. Qualunque sia il futuro del presidente di Confindustria, la vicenda Fiat sarà decisiva: gli serve il successo di Marchionne per sganciarsi con onore. Al tempo stesso Montezemolo un po’ ne patisce la dimensione del potere, e subito dopo il divorzio con GM l’aura che ne era derivata. Al momento il rapporto mostra una certa usura. Una persona che ha il polso delle cose Fiat dice: “Sergio si lamenta perchè Luca non c’è quasi mai. Oggi una padrona di casa accorta non li metterebbe seduti dallo stesso lato della tavola”.
Banche. Situazione delicata e complessa. Marchionne è arrivato in un momento in cui gli istituti di credito sono decisivi per la stabilità della Fiat, perché ne sono azionisti virtuali. Un gruppo di otto banche – Intesa, Unicredit, Capitalia, SanPaolo-Imi, Bnl, Mps, AbnAmro, Bnp-Paribas, – vanta nei confronti di Torino tre miliardi di euro di credito convertendo: se non restituito, cioè, deve essere trasformato in titoli azionari.
A pochi mesi dalla scadenza del convertendo (settembre) il sistema bancario deve fidarsi di lui, ma anche marcarlo. Il contratto è molto oneroso per le banche. La conversione del credito da tre miliardi varrebbe una partecipazione dal valore inferiore di oltre un terzo: “Come se le otto banche sottoscrivessero un aumento di capitale con un sovraprezzo pazzesco”, spiega un analista. La vittoria sulla put lo mise nelle condizioni psicologiche di giocare alla sua maniera: non pagherò, che le banche convertano pure. Se a settembre dovessero effettivamente farlo lui si troverebbe con otto nuovi azionisti, ma con tre miliardi di debiti in meno; viceversa otterrebbe la rinegoziazione del debito imponendo condizioni di convenienza.
Naturalmente, in questo schema ci sono molte subordinate con diverse sfumature. Dipenderà anche dalle pressioni della famiglia Agnelli che in caso di conversione del debito vedrebbe diluita la sua quota in Fiat a favore delle banche, che tutte insieme diventerebbero il primo azionista (famiglia che pochi giorni fa, per voce di Gianluigi Gabetti, capo di Ifil, ha escluso di volere intervenire direttamente nella questione). Comunque le banche non sono unite e l’esito del negoziato sarà la conseguenza dei rapporti dentro la cordata bancaria, e dalla capacità di Marchionne di governare quei rapporti e di stabilire intese con i singoli banchieri. Al momento è difficile distinguere le posizioni tattiche dagli obiettivi reali, però si dice che Marchionne abbia un rapporto buono con Corrado Passera (anche perché con l’amministratore delegato di Banca Intesa può parlare di finanza ma anche di questioni industriali) e con il capo della divisione corporate di Intesa, Gaetano Miccichè.
Partiti, governo e sindacato. Marchionne non ha molta mano con i rapporti politici, e il suo lato canadese lo spinge a diffidare per i levantinismi che qui ritrova. Dunque sta a guardare. In generale teme il sindacato, e a suo tempo disse a un amico di essere più preoccupato dalla Fiom che da GM.
Una morale tennistica
A poco meno di un anno dal suo insediamento, il super provvisorio bilancio dice questo: Marchionne ha cominciato un lavoro di pulizia su uomini, forniture, costi. Ha chiuso la vicenda put, ha acquisito libertà d’azione e piena responsabilità sulle prossime mosse. Spregiudicatamente, alla sua maniera, sta puntando le otto banche del convertendo. Ha liquidato i due grandi manager di prodotto che erano arrivati con Giuseppe Morchio: Martin Leach, ex-Ford, capo di Maserati, e Herbert Demel, ex Audi, capo di Fiat Auto. Si è preso in carico diretto l’auto, ha assommato a sé le due cariche di duplice ad della holding e dell’Auto, come era successo in passato al solo Cesare Romiti alla fine degli anni Ottanta.
Ma che cosa vuole fare veramente Marchionne dell’auto? Una tesi interessante è quella di chi sostiene che, come la vicenda General Motors dimostra, si starebbe organizzando su una linea mediana: pronto a tutte le soluzioni, dalla cessione all’alleanza strategica, quello che capiterà. Ma prima di tutto ha bisogno di avviare il risanamento. Vuole arrivare al pareggio di bilancio per l’auto nel 2006. In teoria spera di poter generare risorse per gli investimenti dai ricavi. Ma è in ritardo su alcuni nuovi modelli e con ogni probabilità avrà bisogno di trovare in qualche altro modo il denaro. Le soluzioni non sono molte: iniezione di liquidità da parte degli azionisti, cessione (magari solo di una parte dell’auto), una qualche formula creativa di investimento pubblico. Per rimettere i conti in ordine e rilanciare l’auto servono molti soldi. Bisogna ripianare le perdite di Fiat Auto (quasi un miliardo di euro all’anno), pagare i debiti (oltre mezzo miliardo l’anno di oneri finanziari attribuibili all’auto), finanziare gli investimenti: i produttori di dimensioni paragonabili a Fiat investono un paio di miliardi l’anno. Per organizzare una strategia serve un piano industriale. Per ora ci sono solo alcune indicazioni sulle prospettive dei marchi (Fiat generalista, Maserati-AlfaRomeo polo sportivo, Lancia da rispolverare come ha fatto Bmw con Mini, Ferrari è Ferrari) e il progetto di integrazione delle attività motoristiche di tutto il gruppo, che servirà a fornire le vetture torinesi, ma anche il mercato internazionale.
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Come nota un amico recente del nostro eroe, è sempre sconveniente cercare la morale in una storia. In questo caso potrebbe essere più interessante chiederci semplicemente come dobbiamo prepararci ad assistere al resto dello spettacolo? Fin qui la storia di Sergio Marchionne è estremamente schematica, un puro attraente cliché. E’ un emigrante di ritorno, un pendolare internazionale a bordo di una Ferrari 430, un ragazzo che ha fatto fortuna e compra casa a sua madre in un quartiere residenziale, che guadagna 2 milioni e mezzo di euro l’anno, conosce il valore del successo e vuole respingere la prospettiva ignominiosa di passare alla cronaca come il ministro di Romolo Augustolo.
Dunque, al pubblico si consiglia di fare attenzione, e di non farsi fregare dall’occhio spiritato del protagonista. D’altra parte come in tutte le sfide impossibili è più leale fare il tifo per chi deve rimontare: c’è un tale indietro di due set, sotto anche nel terzo, guarda il suo avversario servire per il match, e come se non bastasse sa di avere una racchetta lenta e pure una scarpa slacciata.