Tratto da Casa Agnelli, Mondadori, 2007
Il Bosco Parrasio è una piccola villa alle pendici del Gianicolo, sotto lʼAcqua Paola. Il cancello dʼaccesso si trova alla prima curva della via Garibaldi venendo dalla Lungara. Dal 1724 il Bosco fu la sede dellʼAccademia dellʼArcadia, il casino fu costruito due anni dopo ed è ancora di proprietà dellʼassociazione. Virginia convinse gli Arcadi ad affittarle la villa, che per quasi mezzo secolo è stata la casa romana degli Agnelli. È qui che i ragazzi vissero insieme alla madre, quando, dopo la morte di Edoardo, scapparono da Torino per sottrarsi alla disciplina senatoriale che la giovane donna malsopportava. Ed è forse questa la casa più importante di Vestivamo alla marinara, la casa della felicità (se mai vi fu una felicità), della libertà, della guerra, di Raimondo Lanza, grande amore della giovinezza, dellʼ8 settembre, del generale Carboni, delle passeggiate in bicicletta e dellʼamore di Susanna per sua madre. Scrive Suni: «“Dimmi ancora mammà” ero seduta sul fondo del suo letto appoggiata a una delle colonnine “dimmi ancora della casa, dei fiori, della luce, della tramontana che soffia le foglie nel blu del cielo”». Il luogo ha una miracolosa magia, che si manifesta quasi con gravità nel piccolo anfiteatro ellittico – quattro file di sedili – davanti alla facciata, una specie di parlamento arcadico immerso tra gli alberi. Poiché viene considerata una delle case più belle della città, per la proprietà transitiva è anche una delle case più belle del mondo. Susanna, che lʼaveva tenuta per sé dalla morte di sua madre, se ne separò negli anni Settanta. Da quasi trentʼanni è la casa di Franco e Sandra Carraro. Lei non cʼè mai più tornata, segno di sentimentalismo. Per la stessa ragione – una segreta malinconia – qualche volta ci è tornato suo fratello Gianni. Arrivava senza preavviso e restava a chiacchierare fino a tardi, lui che di solito andava a dormire molto presto. Una volta Sandra Carraro gli regalò la copia di una rivista femminile degli anni Trenta, «Cose», dove cʼera un servizio fotografico della casa ai tempi di sua madre. In mezzo alla sala centrale – intorno a cui si sviluppa il piccolo edificio – cʼera soltanto un divano.
Vestivamo alla marinara ebbe successo. Il successo, accanto a un pregiudizio sociale al contrario, negò al libro tutta la considerazione che merita: è unʼottima prova della memorialistica italiana del dopoguerra, solo qua e là appesantito da unʼeccessiva ricerca dellʼeffetto, a chiusura di un paragrafo, o da qualche compiacimento snobistico. Nonostante la franchezza, o proprio in ragione di essa, alla fine risultò agiografico: Gianni e lʼamore come sentimento ancillare, Gianni e la guerra, Gianni e il coraggio, le massime di Miss Parker, i racconti delle vite parentali, compresa la storia – che successivamente Susanna riconobbe per falsa – di Axel Munthe che avrebbe chiesto a sua nonna princess Jane di smettere di bere. È un libro privo di misura sentimentale, fino a toccare nei confronti di Virginia una specie di ferocia amorosa. Per capire quello che sarebbe diventato successivamente il ruolo della famiglia e la sua dimensione sociale nellʼimmaginario italiano, i ricordi di Susanna offrono spunti interessanti sullʼascesa sociale degli Agnelli: bellissima la rapida, mondana, fuggevole descrizione di una festa a cui princess Jane invita tutti i bambini per bene della capitale per introdurre i suoi nipoti. Ma rimprovera Virginia di aver vestito malissimo le figlie: «Per noi» scrive Susanna «la festa è una battaglia disperata per sopraffare lʼorrore di sembrare le figlie del dro- ghiere». I bambini romani che parlano lʼitaliano con accento inglese non rivolgono la parola ai bambini Fiat: «Le ragazze vengono chiamate donna Topazia, o donna Babù o donna Francesca. A noi ci chiamano per nome». Terribilmente franca la descrizione del rapporto tra lei e la madre di Topazia Caetani (la futura moglie di Igor Markevitch, il direttore dʼorchestra che dopo morto fu tirato in ballo come presunto grande vecchio delle Brigate Rosse; allʼepoca della giovinezza era la sua migliore amica). La madre di Topazia la detestava perché «borghese» e perché figlia di Virginia, di cui era invidiosa.
Lʼinteresse di Suni per i rapporti sociali è istintivo ed è alla base di una certa organizzazione dinastica della vita, che lei condivise con suo fratello Gianni. Allʼinizio il disegno fu schematicamente organizzato su una visione classica, ancora ottocentesca. Ai ragazzi Agnelli-Nasi piace lʼaristocrazia: Fürstenberg, Caracciolo, Rattazzi, Campello, Brandolini, Ferrero, Camerana. Successivamente Gianni e Susanna sviluppano una visione più attuale del problema, si kennedizzano, inglobano nella questione mondana il peso del potere. Un anonimo amico nota che, per capire la tensione dinastica di Suni, il suo orizzonte, è utile un passaggio del diario di Andy Warhol in cui vengono menzionati i suoi figli scorrazzanti per New York alla fine degli anni Settanta. Scrive Warhol il 16 luglio 1978: «Steve Rubell [proprietario dello Studio 54] non sa niente dellʼEuropa – crede ancora che il nome di Gianni Agnelli sia “Johnny Antonelli”, e lo chiama sempre così. Una volta ha detto: “Johnny Antonelli è il vero proprietario della Fiat – non tutti quei ragazzini Rattazzi”». Cioè: gli Agnelli, i cui volti pubblici più rappresentativi erano Gianni e Suni – i nipoti di un duro, geniale new comer che si affaccia al secolo breve nella competizione tra fabbricanti dʼauto –, dopo due generazioni hanno fatto moltissima strada dai tempi in cui la mamma di Topazia faceva la schizzinosa, e sono talmente compenetrati in una dimensione di jet-set internazionale da essere oggetto di un pettegolezzo – ancorché in sé poco significativo – nel centro del centro del mondo che pulsa, New York City, sotto lʼocchio del più luminoso artista dei suoi tempi.
È opinione comune che Vestivamo alla marinara non sarebbe stato lo stesso senza Cesare Garboli che prestò la sua mano di editor. Garboli, uomo eccentrico, già molto ricco, frequentatore della Versilia sin da ragazzo, è un critico letterario geniale. Allievo di Roberto Longhi, fedele a unʼimmagine di scrittore quasi privato, oltre ad aver scritto cose molto interessanti su Molière con la sicurezza del francesista (e non era un francesista), su Natalia Ginzburg e su Elsa Morante, è stato il critico che consegna alla generazione successiva – alla nostra, cioè – il fascino del talento e della vita di due straordinari autori italiani: Sandro Penna, poeta romano, omosessuale, molto malmesso commerciante in quadri; e Antonio Delfini, scrittore geniale, frammentario, superitaliano, provinciale, decadente, sfortunato, intorno al quale Garboli costruisce un balletto psicologico di identificazione, fino al punto che non ha senso leggere Delfini senza leggere Garboli e viceversa. Garboli è un uomo singolare, non si è mai integrato del tutto nel sistema del potere culturale italiano, sempre con un piede dentro e uno fuori, ma questa condizione gli conferisce un autonomo potere che esercita anche capricciosamente, come quando nel 1994 stronca sulla «Repubblica» un romanzo di Eugenio Scalfari, che allʼepoca era ancora direttore del giornale.
Uomo affascinante, amatore di una certa fama, vigile e vanitoso custode di quella tradizione minoritaria di seduttori che conoscono bene i fondamentali del problema (le donne, cioè), nella stesura di Vestivamo alla marinara, fu il consulente privato di Susanna Agnelli, con la quale aveva avuto una storia sentimentale. Ricorda Alfonso Berardinelli che «lui ne parlava di rado». Solo ogni tanto si lasciava sfuggire qualcosa. A un amico una volta disse che «era stata una storia che aveva voluto lei». In Addio, addio mio ultimo amore, lei lo de- scrisse come bellissimo, alto, asciutto, aria rapace, mani esili da ragazza, carattere infernale e intelligentissimo. Capì di essersene innamorata un giorno che lo vide camminare con lʼaria stonata, il loden troppo lungo e lo sguardo perso nel nulla. I figli sapevano di questo amore. Il maggiore dei maschi, Cristiano, lo considerava uno schizofrenico, Delfina lo ado- rava.
Nonostante venisse da una famiglia di grandi imprenditori, aveva un rapporto difficile con il denaro, con il capitalismo e naturalmente con il loro simbolo più forte, gli Agnelli. In uno dei saggi raccolti in Falbalàs (1990), «Comʼè nata unʼamicizia», dedicato a Giangiacomo Feltrinelli, a un certo punto fa una piccola deviazione e, a titolo di paragone, si occupa di Gianni Agnelli.
Scrive sul ragazzo Fiat poco più di una pagina, densa di intuizioni e di alcune raffinate perfidie. Lo definisce «moderatamente debitore, molto moderatamente, alla psicanalisi» (battuta formidabile), scrive di come avesse cancellato il suo se stesso a favore dellʼistituzione di se stesso (lʼio che scompare e lascia posto al cognome), di come la sua conversazione fosse elusiva, superficiale, frou-frou; della sua ripugnanza per il mistero e la malattia, e di come in definitiva fosse quasi innocuo: «In fondo per questʼuomo dagli occhi di marmo e dal largo e mansueto sorriso di rettile, il mondo va frequentato con cinismo ma senza cattiveria e brutalità, e ipocrisia molto blanda; con dolcezza, piuttosto, con gentilezza, e con lʼinfinita cortesia e lʼinfinita bontà di chi sa, non senza una certa afflizione, che altro non cʼè e altro non regna al mondo che il potere».
Susanna è molto rispettata in famiglia, anche dalla parte Nasi. È la più carismatica delle sorelle, lʼunica a tener testa al fratello, a causa di una specie di superiore intimità. Dice unʼamica, osservatrice appassionata di quel mondo sospeso tra la Fiat e la famiglia: «Irradia potere e sicurezza, è fisica, tosta, stabile, è lʼultimo mito agnelliano».
Dicono i suoi ammiratori che Susanna è stata capace di reinventare la sua vita più volte, di riempirla. Con la scrittura, con la solidarietà, oppure con la politica. Cominciò nel 1974 quando si candidò a fare il sindaco di Monte Argentario. Nel 1976 viene eletta deputato per il Partito repubblicano, cui gli Agnelli sono molto vicini, per via di uno stretto rapporto con Ugo La Malfa che risale agli anni della guerra. I La Malfa furono ospitati clandestinamente dai Caracciolo nella casa di via della Lungarina, e poi in casa Caracciolo in Svizzera, a Lugano, dove il futuro leader repubblicano figurava come professore di educazione fisica: «Una copertura in effetti poco credibile» ricorda sorridendo suo figlio Giorgio. Sarà Filippo Caracciolo, padre di Marella, Carlo e Nicola, a incoraggiare il rapporto tra La Malfa e casa Agnelli. Il risultato è un appoggio continuo e abbastanza esplicito nei confronti dei repubblicani. A Susanna, eletta in Parlamento nelle liste del Pri, tocca un ruolo a mezza strada fra la testimonianza e il pegno famigliare. Negli anni Ottanta va al governo. È sottosegretario agli Esteri con Bettino Craxi, Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti.
Dopo Tangentopoli non si ricandida, ma nel 1995, quando Lamberto Dini riceve lʼincarico e succede a Silvio Berlusconi, torna al governo, e per un anno è ministro degli Esteri. È la fase massima della supplenza, la politica praticamente non esiste, Dini presiede il più tecnico dei governi tecnici cui il sistema Agnelli-Fiat presta una delle sue facce. La Fiat è ancora molto forte, ma nessuno solleva il problema del conflitto dʼinteressi; lei, peraltro, farà bene il suo lavoro di ambasciatore di un paese privo di classe dirigente politica. Nel 1996 lascerà il posto proprio a Dini e si concentrerà nella promozione di organizzazioni di ricerca e assistenza sociale.
Tutto ciò fa di lei una persona abbastanza singolare nellʼItalia del secolo scorso: una donna molto ricca di denaro e di amicizie internazionali, alle prese con un ruolo pubblico e con un sistema di relazioni politiche che dura per tutta la vita. Parte dalla buona amicizia con Galeazzo Ciano – mediata da Raimondo Lanza – conseguenza fisiologica dellʼessere Miss Fiat, e si chiude con unʼincredibile coincidenza simbo- lica: lei seduta alla scrivania di ministro degli Esteri di un governo postdemocristiano, sessantʼanni dopo Ciano.
Raimondo Lanza era il figlio adulterino di Giuseppe Lanza Branciforte e di Maddalena Papadopoli Aldobrandini (quelli della villa del Terraglio in cui visse Clara, sorella maggiore di Susanna dopo le nozze con Giovanni Nuvoletti). La nonna paterna di Raimondo, la mitica Giulia Florio, lo fece legittimare grazie allʼintercessione di Mussolini e lo riportò in Sicilia per farlo vivere con lei, da giovane principe ed erede della più ragguardevole famiglia feudale siciliana, a palazzo Butera, il maggior palazzo dellʼisola insieme al palazzo Biscari di Catania). In linea con lʼimportanza della famiglia, lʼedificio è sostanzialmente un piccolo palazzo reale con un fronte di 120 metri delimitato da una grande magnifica terrazza maiolicata affacciata sul lungomare palermitano. Susanna aveva conosciuto Raimondo a Roma e se nʼera innamorata nei pazzi, disordinati anni del Bosco Parrasio. In una estate durante la guerra, Raimondo lʼaveva invitata in Sicilia e lì lei aveva conosciuto Giulia, la quale in virtù del matrimonio Lanza era economicamente lʼunica sopravvissuta al tracollo di casa Florio.
Come racconta Marcello Sorgi ne Lʼultimo dandy, ritratto di Lanza, nel 1995 Palermo ospitò un G7. E il ricevimento più importante per i capi di Stato e di governo era stato organizzato nel palazzo Butera. Susanna era ministro degli Esteri e non era mai più tornata in quella che era stata la bellissima casa di Raimondo. Nella fase organizzativa il questore di Palermo aveva posto un problema di sicurezza riguardo allʼopportunità di esporre i leader occidentali allo spazio totalmente scoperto della terrazza. Lʼultima parola spettava al ministro. “Se non vi dispiace – disse lei – prima di decidere vorrei rivedere il terrazzo... il mio terrazzo”, aggiunse sussurrando. Pura Susanna, pura malinconia e letterarietà agnelliana. Dopo quindici anni a rendere la storia più romantica si aggiunga unʼulteriore coincidenza. I Moncada, cui arrivò il palazzo nel dopoguerra, lo hanno recentemente venduto a Massimo Valsecchi, collezionista e conoisseur di altri tempi, che lo ha completamente restaurato riportandolo alle meraviglie del ‘700, e lì vive con sua moglie Francesca Frua de Angeli, cugina di Susanna, lato Nasi.
Lʼintreccio di conoscenze ed esperienza è alla base della sicurezza di SA nel giudicare gli altri, come se questa esperienza fosse la sua intelligenza. Una sicurezza che molti reputano troppo perentoria. Altri le riconoscono, dʼaltro canto, di avere sempre detto quello che pensa, considerando la franchezza un segno a metà strada fra la trasgressione e la distinzione sociale.
La rubrica di posta che tiene da molti anni su «Oggi» è un argomento da chat line. La perfidia delle sue risposte è proverbiale. Su asphalto.org un certo «psycho» è un estimatore delle sue risposte da un rigo. Ne cita una meravigliosa. A una donna che dice di amare suo marito e di tradirlo platonicamente (solo baci) con un altro uomo, e di lasciarsi andare ogni tanto anche con altri quando cʼè il feeling, la titolare della rubrica così risponde: «Non riesco a immaginare cosa intenda esattamente per lasciarsi andare con altre persone, comunque mi sembra che suo marito sia un gran cornuto». Questo tratto di crudezza ha un sottofondo di pretesa didattica. Chi ne ha studiato il carattere vi dirà che ricorre in lei (e nella linea matrilineare della sua discendenza) un certo modo di spiegare – agli altri – le cose del mondo che si riassume in un ricorrente «perché nella vita...», pronunciato come se arrivasse da un altro luogo molto autorevole. E da quel luogo, dunque, risuona la spiegazione di chi nella vita è stato davve- ro, e tornatone vi dice: «perché nella vita...».
Si dà il caso che un «nella vita...» sia toccato di recente a suo nipote Pietro Sermonti, popolare attore tv. Sermonti, dopo Un medico in famiglia, la scorsa stagione ha recitato in La moglie cinese. Secondo sua nonna, che proprio allora esordiva in tv in veste di critico, Pietro aveva sbagliato ad accettare quel ruolo: «La moglie cinese lʼho guardata per ragioni famigliari avendo un nipote che era, mi sembra, il protagonista... e mi rattrista molto che abbia fatto questo programma televisivo. Prima di tutto perché era doppiato, e trovo che un attore non si fa doppiare, soprattutto quando parla nella sua lingua. Due, perché non credo che lui dovrebbe fare il commissario. In Italia il commissario è talmente legato al commissario Montalbano che mi sembra quasi impossibile fare concorrenza a Montalbano. Dunque fare il commissario è già mettersi in una situazione di inferiorità. Per di più, o lo facevano piangere tutto il tempo oppure era arrabbiato nero, oppure erano delle scene dʼamore che, devo dire, non apprezzo particolarmente».
La sua avventura di critico catodico nacque dietro un invito di Antonello Piroso, direttore del tg de La Sette. Lei accettò. A luglio del 2006 furono realizzate quattro puntate pilota di «Televisti da Suni». Nella prima parlò non solo di Sermonti, ma anche della Juve e di quelli che lʼhanno rinnegata dopo i fatti di primavera e la retrocessione: «Gli juventini veri sono quelli che invece dicono: quando hai amato una donna la ami anche se poi diventa una troia».
1969. Gianni, presidente della Fiat, quarantottenne forse al massimo del suo splendore di bellʼuomo, cammina per piazza di Spagna con lʼaria di essere diretto da qualche parte. Al suo fianco, un passo indietro a sinistra, cʼè una ragazzina di diciottʼanni molto bella, sua nipote Delfina, sopracciglia e bocca dritte, occhi profondi, capelli raccolti, vestito cortissimo di maglia di cotone, scarpe stondate, mezzo tacco, fibbia dorata, la figura è nitida, quasi scontornata sullo sfondo. Un passo avanti a sinistra, cʼè Susanna: ha un vestito chiaro corto sopra il ginocchio, due tasche a toppa in vita, due sul petto, bottoni dorati e spalline, scarpe in tinta, capelli corti, una collana girocollo annodata, un piccolo orologio e una borsa a mano da giorno. Di solito non usa la borsa, semmai una specie di piccola polsiera per il fazzoletto. Anche lei non ha lʼabitudine al denaro: «Del resto non si pretende da Picasso che vada in giro con il pennello», nota iperbolicamente unʼamica. Unʼaltra racconta: «Nei primi anni Settanta, quando la conobbi, cʼerano due cose che mi colpivano del suo modo di vi- vere perché erano distanti dalla vita normale: lʼestraneità al denaro; bisognava sempre averne un poʼ, perché a lei provvedeva il personale, lʼautista o una persona di servizio, e se non cʼerano bisognava essere pronti a intervenire. AllʼArgentario cʼera una cassa comune in casa e il denaro veniva prelevato da lì. La seconda cosa che mi colpiva era lo stato un poʼ dissestato degli affetti famigliari».
Susanna è una donna dalle molte rigidità e stranezze. Con i figli ha vissuto in modo anche comunitario, soprattutto negli anni Settanta, quando la famiglia era unita tutta intorno a lei, e lo spirito di estrema libertà che si respirava nel mondo esterno entrava anche nelle abitudini delle famiglie, tanto più in quelle che trovavano doveroso sentirsi disinibite: e questo tipo di dovere faceva parte dellʼeducazione trasmessa da Virginia. È stata una madre complicata, impaziente, estrema, «anzi, di estremi» racconta unʼamica dei ragazzi «che passava allʼimprovviso dalla tenerezza alla massima durezza», forse competitiva con le figlie e iperprotettiva con il maggiore dei figli maschi.
Come suo fratello Gianni deve essere rimasta colpita sfavorevolmente dal fatto che i figli sono persone e che possono avere idee sulla vita diverse da quelle dei genitori. È convinta dellʼeffetto del denaro sullʼeducazione, del suo essere «a prescindere»; ritiene che i suoi figli non rimuoveranno mai la nozione del denaro dal pensiero di loro stessi. Questa non è una promessa di felicità, ma quasi una minaccia, come a dire: «Attenzione, qualunque cosa facciano prima o poi si ricorderanno di essere molto ricchi».
È orientata alla rimozione dei problemi affettivi. Non pianse quando morì il fratello Giorgio, non seppe accettare la malattia di una nipotina che morì da piccola: i buchi della sua infanzia si proiettano su quelli che in qualche modo procura nellʼinfanzia dei suoi figli.
Racconta una spietata analista della generazione del privilegio: «La verità è che Suni va sempre con i vincitori. I vincenti – anche quando sono dediti ad attività discutibili – sono in cima alla sua scala dei valori. Stare dalla parte dei vincitori è più comodo e rassicurante. Il paradosso è che questa sua debolezza nei confronti della vittoria lʼha resa più fragile, anche nei confronti di suo fratello, il vincente (almeno fino a un certo punto). A lui, Suni andava bene come complice, ma non aveva una reale considerazione di sua sorella come individuo».
Cʼè qualcosa di solitario in lei, come lʼamore per il silenzio, la tendenza a ovattare gli ambienti. Dallʼaltro lato della ferocia e della crudezza cʼè lʼimpegno sociale. Presiede la fondazione Il Faro, che si occupa dellʼinserimento e della formazione professionale di giovani tra i sedici e i venticinque anni provenienti da situazioni ambientali difficili. Curiosità: per la sede è stato scelto un quartiere popolare, Portuense, via Virginia Agnelli. Poi cʼè la presidenza di Telethon, che viene considerato il più moderno stru- mento italiano di fund-raising. Grazie allʼinvenzione delle maratone televisive, tra il 1990 e il 2006 Telethon ha raccolto quasi 400 milioni di euro destinati alla ricerca per la cura della distrofia muscolare e di altre malattie genetiche rare.
Per i ragazzi Rattazzi, il Bosco Parrasio era una casa cupa e imponente. La parte sottostante, originariamente una piccola chiesa, veniva usata solo per i ricevimenti o «se cʼera gente importante». Era – ed è – un salone buio, con le finestrelle in alto. Vi era annesso un battistero destinato a sala da pranzo con porta finestra che dava sullʼanfiteatro. I ragazzi non usavano quasi mai lʼanfiteatro.
Il giardino è umido, un altissimo pino mediterraneo al centro, una fontana di pietra, camelie rosse. In fondo cʼera quella che un tempo era la casetta dei custodi, vicino al cancello sulla via Garibaldi che non si usava mai. Per un periodo ci abitò Margherita autoesiliata.
Susanna ha una passione per la ristrutturazione delle case, e ne ha risistemate un centinaio. Anche la casa del Bosco fu rimaneggiata. Lo scalone interno in pietra, che originariamente saliva ai piani alti, fu sostituito negli anni Settanta da un ascensore. Di sopra cʼerano due stanze da letto, uno studio e una sala da pranzo che dava sul terrazzo. Più in alto ancora cʼerano le due stanze dei genitori. La stanza di Urbano fu successivamente trasformata in salotto, con un terrazzo e un pergolato di glicine che saliva dalla facciata. A sinistra si trovava lʼorto botanico, che a quel tempo era chiuso e in disarmo. A destra la via di Porta San Pancrazio, che terminava in una lunga gradinata fino allʼAcqua Paola.
Susanna vi tornò a vivere quando rientrò dallʼArgentina a metà degli anni Cinquanta. I figli abitavano lì vicino in un attico di via Dandolo. Con i ragazzi cʼera della gente abbastanza buffa. Una cameriera alcolizzata e di solito due tate. Fra quelle che i ragazzi stimano tra le più memorabili, cʼera la signorina Anne-Marie, una ex suora. Aveva lasciato lʼordine – pare – a causa di un molto prosaico mal di schiena. Nella sua stanza cʼera un altare. Nella stanza da pranzo, invece, aveva appeso un foglio di carta con i nomi dei ragazzi. Alla fine della giornata assegnava i più e i meno. Con una maggioranza di segni negativi la punizione consisteva nello scrivere a mano durante il weekend cinquanta pater noster e cinquanta ave maria. Se il sabato i più e i meno erano in parità, nel dare la buonanotte sussurrava un detto della Bibbia: «I mediocri saranno vomitati».
Poi cʼera unʼinglese, grassa, brutta e molto cattiva. Aveva un numero tatuato sul polso, perché era stata in un campo di concentramento. A chi le chiedeva: «Perché non se lo fa togliere?», lei rispondeva che voleva che tutti lo vedessero. Infine arrivò una svizzera abbastanza umana. Di pomeriggio i ragazzi venivano portati a passeggiare al Gianicolo. Solo da grandi capirono che i richiami e le urla provenienti da lassù servivano per cercare di comunicare con i reclusi di Regina Coeli. Poi Ilaria si sposò, Cristiano andò a Venezia a studiare al collegio Morosini e i più piccoli furono riammessi al Bosco.
Al Bosco Parrasio andava Garboli. Portava Giorgio Bassani, Niccolò Gallo, Michelangelo Antonioni, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Mario Soldati, Jacques Lacan e Vittorio Sermonti, il quale poi avrebbe sposato Samaritana. Susanna non lo amava. Si dice che Susanna abbia deciso di abbandonare la casa alla fine della storia con Garboli. Lui era un temperamento vigoroso e toglieva alla casa la naturale tetraggine collegata al ricordo di Virginia. Negli anni Settanta, Susanna stette molto a New York e allʼArgentario, di cui si doveva occupare da quando ne era diventata sindaco. In Addio, addio mio ultimo amore racconta di quegli anni tra lʼAmerica e la Toscana, i figli, Garboli e poi la lunga amicizia con Guido Carli.
Oggi Susanna ha 84 anni e, come Bartlebooth ne La vita, istruzioni per lʼuso, il romanzo di Georges Perec, ogni tanto osserva e si rigira tra le mani lʼultimo pezzo del puzzle che deve collocare, e si accorge che non coincide con lo spazio rimasto libero sul panno. Una gran parte dellʼetà del privilegio è stata messa in discussione, a cominciare da quello che sono stati loro, Gianni e lei. Non le piace essere messa a cospetto di uno stato dʼanimo che assomiglia al dolore.